“PSICOLOGIA E ALCHIMIA” è un libro di Carl Gustav Jung
Manifestazioni autonome e complessità dell’Io
Come è stato possibile per Jung l’accostamento, a prima vista geniale e fecondo, di psicologia e alchimia? E che collegamento c’è con i concetti di “manifestazioni autonome” e “complessità dell’Io”?
Questi ultimi concetti furono il risultato di lunghe osservazioni che Jung fece sulla vita psichica inconscia di molti suoi pazienti. All’inizio furono solo delle sue intuizioni, poi trovò conferma di queste sue idee nei viaggi che intraprese in Oriente e negli studi sull’alchimia.
I fenomeni delle “manifestazioni autonome” e della “complessità dell’Io” vennero dedotti da Jung attraverso l’osservazioni di alcuni dati per cui sembrava che l’inconscio facesse tutto da solo, auto-promuovendo un processo di cura in cui emergevano spontaneamente analogie e simboli.
Osservò questo fenomeno:
– nei sogni di persone che descrivevano esatte circostanze della loro vita, non offuscate da meccanismi di difesa, che poi mostravano di avere più chiara la loro situazione,
– nell’emersione spontanea di simboli o archetipi che attivavano processi di riflessione e soluzione di conflitti.
L’ idea che la psiche avesse una sua propria volontà e autonomia che portava al centro di qualcosa, prese consistenza anche grazie all’osservazione di alcuni disegni, fatti da pazienti psicotici che spontaneamente disegnavano spesso dei mandala.
Jung associò questi fatti al fenomeno della circumambulazione (dal latino circumambulatio) notando delle assonanze e cercando di capire se ci fossero dei collegamenti.
La circumambulazione è una pratica religiosa che, presente in molte tradizioni d’oriente e d’occidente consiste nel passeggiare attorno a una persona, o a un oggetto fisico, o ideale. Attualmente tale pratica è diffusa nel buddhismo, nell’induismo e nell’islam e in passato era praticata anche in talune cerimonie religiose precristiane. Jung ipotizzò che la circumambulazione dovesse avvenire anche a livello inconscio, constatando che in tutte le culture si osservavano creazioni artistiche tipo i mandala, e che il centro di questo PUNTO dovesse rappresentare la meta da realizzare da parte dell’individuo; questo punto-meta lo chiamò Sè.
Questo riferimento a un CENTRO lo ritrovò sia nell’alchimia d’oriente e d’occidente che nelle perdute pratiche gnostico cristiane, pertanto volle approfondire queste culture.
Nel testo “Psicologia e Alchimia” Jung spiega come è giunto a sviluppare il suo pensiero, ritrovando in queste tradizioni il riferimento a simboli o archetipi utilizzati per operare delle pratiche di trasformazione della coscienza.
“PSICOLOGIA E ALCHIMIA” è un libro di Carl Gustav Jung
Il testo “PSICOLOGIA E ALCHIMIA”, dato alle stampe per la prima volta nel 1944 come riferisce Jung (Jung, 1961), rappresenta un ampio rimaneggiamento di due studi presentati alle sessioni delle conferenze “Eranos” ad Ascona, tenute in Svizzera (Canton Ticino) e pubblicati poi, rispettivamente, nel 1936 il primo (Simboli onirici del processo d’individuazione) e nel 1937 il secondo (Le rappresentazioni di liberazione nell’alchimia). Questo progetto rispondevano alla preoccupazione sempre costante di Jung di verificare storicamente l’appartenenza di tutti gli esseri umani ad un’unica iniziale esperienza psichica collettiva. Intimamente infatti temeva che questo suo personale modo di vedere i movimento dell’inconscio attraverso i simboli fosse il frutto di sue fantasticherie pertanto ritrovare idee simili in antiche tradizioni fu un sillievo per lui.
Luigi Aurigemma all’inizio del libro scrive la premessa per fornire al lettore la chiave di comprensione del testo. Egli sostiene che “Psicologia e alchimia” rappresenta lo sforzo di Jung di dare validità scientifica alle sue intuizioni e diffondere una modalità terapeutica che in realtà aveva avuto radici molto antiche.
Luigi Aurigemma a questo proposito scrive:
“I due studi, riuniti nell’opera, furono volti da un lato a rompere l’isolamento di Jung, successivo alla rottura con Freud, confermandogli in certo modo, attraverso l’approfondito esame del complesso e oscuro fenomeno storico dall’alchimia, la presenza culturale millenaria di motivi psichici che le sue teorie consideravano essenziali e, del linguaggio che riproponevano; d’altro lato questi studi volevano offrire una chiave totalmente originale di lettura di un mondo di ricerche e di simboli che venivano così a rivelarsi infinitamente più ricco d’insegnamenti di quanto non potesse lasciar pensare la riduzione corrente dell’alchimia a balbettamento pseudochimico.”
Nella sua autobiografia Jung data l’accostamento dell’alchimia con la psicologia alla fine degli anni venti del secolo scorso e ai primissimi anni del decennio successivo. Momento di un suo grandissimo fervore interiore, di cui egli scrive:
“Mi ci sono voluti praticamente quarantacinque anni per distillare nell’alambicco del mio lavoro scientifico le cose che sperimentai e annotai allora. Da giovane, la mia meta era di effettuare qualcosa nella mia scienza. Ma poi fui travolto da questo torrente di lava, e il suo fuoco diede nuova forma e nuovo ordine alla mia vita. Fu la materia prima, che mi costrinse a plasmarla; e le mie opere sono un tentativo, più o meno riuscito, di incorporare questa materia incandescente nella Weltanschauung del mio tempo. Quelle prime fantasie e quei sogni erano come magma fuso e incandescente: da essi si cristallizzò la pietra che potei scolpire.”
Ad avviare Jung su questa associazione fu il testo di Herbert Silberer pubblicato nel
1914 a Vienna “Problemi della mistica e del suo simbolismo” (Probleme der Mystik und ihrer Symbolik) che, per la prima volta, ipotizzava una possibile lettura simbolica del linguaggio dell’alchimia.
Molti anni dopo, e dopo gli intensi avvenimenti interiori, il suo interesse per l’alchimia prese realmente corpo. Più precisamente da quando, nel 1928, il sinologo tedesco Richard Wilhelm gli aveva inviato da Pechino, con la richiesta d’un commento, un testo taoista cinese, “Il segreto del fiore d’oro” e rapidamente Jung ne aveva afferrato il carattere nel contempo psicologico e alchimistico.
L’interesse per questo testo lo motivò con grande interesse a ricercare testi alchimistici per studiarli in modo più approfondito. Negli anni immediatamente successivi, i due volumi “Artis auriferae quam chemiam vocant” che contengono testi capitali dell’alchimia medievale, furono, i primi da lui sottoposti a un esame serrato e appassionato. Questevletture portarono nel corso dei decenni successivi alla pubblicazione di diversi volumi, ma sopratutto a meditare sul concetto dell’unione degli opposti nel confronto del quale i simboli rappresentavano lo strumento privilegiato che raggiungerlo.
L’ultimo volume pubblicato su questi temi fu il “Mysterium coniunctionis” del 1955-56, ma a rappresentare il ponderoso coronamento della sua opera scientifica, fu indubbiamente “Psicologia e Alchimia”. Questo volume può essere considerato il risultato più prezioso emerso dall’ “alambicco” nel quale egli operò la “distillazione” delle sue intense esperienze interiori (solo in parte traducibili nel linguaggio della clinica psicoanalitica) al fine di estrarne quella che diventò la quintessenza delle sue intuizioni teoriche per la cura e la realizzazione personale degli individui.
La disciplina che ne emerse (nel linguaggio alchemico la quintaessenza) Jung la riconobbe nella comune natura di “opus”, cioè nel lavoro di elaborazione psichica accumunato a quel processo che per gli alchimisti è appunto l’ “opus” ossia lavoro e processo teso alla fabbricazione di una realtà nuova e superiore.
Il risultato di questo sforzo per Jung permetteva la “presa di coscienza” nel linguaggio psicologico moderno, mentre nel linguaggio alchimistico, “aurum potabile” (oro potabile) o panacea o lapis (pietra) e in molti altri modi ancora.
A questo proposito il concetto di “traslazione” sviluppato da Freud fu fondamentale per Jung per comprendere alcuni fenomeni delle esperienze degli alchimisti, per cui i contenuti psichici dei quali non era riconosciuta la realtà endogena venivano proiettati e vissuti sul mondo.
E dunque Jung intese l’alchimia come un complesso movimento, di natura “religiosa” ma anche psicologica (più che pseudo scientifica), in cui l’interiorità era spinta da una innata pulsione a trasformare la materia. Per comprendere questo accostamento sarebbe necessario approfondire come nacque. Anche perché le sue origini si perdono nel tempo da quando gli uomini cominciarono a notare i primi effetti delle trasformazioni chimiche delle sostanze, per esempio la scoperta nel vetro o delle sostanze mediche o infiammabili. All’epoca non si conoscevano le proprietà delle sostanze chimiche e queste reazioni venivano intrise di supervisione e spiritismo. Parliamo di un periodo precedente la cultura egizia, è con le testimonianze di quel periodo che si osserva come la manipolazione delle sostanze entrano a fare parte di un pensiero magico e esclusivo di sacerdoti e sapienti. Ad un certo punto le conoscenze relative alla manipolazione della materia entra in una concezione rituale, magica e sapienziale in cui non bastava solo avere istruzioni su come lavorarla ma bisognava anche entrare in sinergie votiva con le divinità a cui venivano collegati certi avvenimenti. In un epoca, in cui non esiste come oggi la moderna chimica, i fenomeni che si osservavano assumevano un alone di magico e misterico. Inoltre solo pochi riuscivano a manipolare e creare delle sostanze spesso utili in molti ambiti, questo ben presto creò un collegamento stretto tra la persona che manipolava e il prodotto che ne veniva ottenuto.
Furono molti gli alchimisti famosi che dal periodo egizio tramandarono le loro conoscenze, passando dalla cultura greca sino al medioevo dove trovò molto molti adepti. In quest’ultimo periodo si diffuse l’idea che fosse possibile tramutare il piombo in oro, in seguito agli scritti dei sapienti che in realtà parlavano in termini metaforici. Il prendere alla lettera delle descrizioni di alcuni fenomeni portarono molti a pensare di potersi arricchire cercando di ottenere l’oro da sostanze volgari. In un certo senso possiamo fare risalire la moderna chimica a quel periodo in cui molti si improvvisarono a fare ogni sorta di esperimento, riuscendo pure a ottenere delle sostanze che utilizziamo tutt’ora.
Al di là di chi intese l’alchimia in senso materialistico, molti sapienti mantennero l’antica tradizione che univa l’umano agli aspetti spirituali e rituali di trasformazione delle sostanze. L’idea era quella che l’ascesa spirituale era rappresentato dall’oro, mentre la materia e l’essere umano rappresentavano il piombo da cui si doveva partire. Si trattava di sapienti che collegavano strattente il concetto di purificazione e trasformazione dell’ sostanze alla necessità che anche la persona che operava tali operazioni si dovesse purificare. Jung vide in questo intento un lavoro che oltre ad essere spirituale, aveva anche delle connotazioni psicologiche. Infatti spesso le pratiche che venivano usate contemplavano lo studio di filosofie e la ricerca di una saggezza esistenziale. In questa tradizione Jung intravide una netta somiglianza con gli obbiettivi che lui riteneva essere alla base del motivo dell’esistenza, ossia quello ossia quello di realizzare la propria intima natura. Una forza chiamata da lui Sé era all’origine di questa spinta universale che se trascurata avrebbe portato al malessere e anch ai sintomi di natura psichica. Per Jung compito dell’essere umano sarebbe stato quello della realizzazione personale pena il dolore emotivo, in questo percorso gli indicatori della direzione sarebbero i simboli e gli archetipi.
Jung in queste letture si trovò proiettato a immaginare come gli alchimisti manipolavano e trasformavano delle sostanze materiali (la cui natura era, allora, fondamentalmente sconosciuta ) nelle storte o negli alambicchi al fuoco del forno fusorio, alla ricerca del supremo frutto di tanto lavoro, in realtà cercavano l’oro della propria ascesa.
Oro, che tuttavia, non era da confondere con l’oro materiale, ma in senso simbolico chiamato in molti modi: Figlio dei filosofi, Elisir di vita, Tintura, Pietra, o anche Cristo risorto, Unicorno ecc..
Nomi che intendono indicare una natura sublime capace di realizzare la concreta realizzazione dell’unione delle sostanze contrarie in un corpo nuovo che sfugge al conflitto delle opposte natura e frutto della coincidentia oppositorum.
Alimentata dall’esigenza, profonda nell’uomo, di comprendere e di superare la conflittuale realtà – spirituale e materiale – che lo costituisce, ma prigioniera nel contempo della speranza proiettiva e della pretesa di rispondervi attraverso la fabbricazione in laboratorio di una panacea misteriosa.
Jung vide nell’alchimia medioevale la testimonianza della presenza nell’animo umano d’una pulsione a realizzarsi individualmente. Un fenomeno psicologico di notevole profondità che definì come una condizione universale nell’animo umano una pulsione a realizzarsi individualmente che se anche ritrovata nelle organizzato dell’istituzione religiosa è ubiguitaria dell’essenza umana.
Jung chiamò una tale pulsione – più o meno carica di energia nei singoli individui e nelle diverse culture ma universalmente diffusa – pulsione d’individuazione e l’oro l’archetipo dell’individuazione.
L’intento del saggio di Jung era mostrare la comune radice in cui s’inverano universali comportamenti attraverso l’analisi di materiali storici diffusi in larghissime aree, dimostrando l’esistenza di un fenomeno comune collettivamente presenti in moltissimi materiali nel passato.
Jung fa una interpretazione psicologica dell’alchimia osservando come la ricerca dell’alchimista era prevalentemente solitaria, la “soror mystica” e ” l’opus” rappresentavano le pratiche di quell’arte sacra concessa a pochi, uniti attraverso i secoli e i paesi dalla vocazione comune.
Questa arte multiforme per Jung avrebbe avuto il fine di una liberazione personale attraverso l’uso di strumenti per avviare le fasi di quel processo in uno stato di intimità solitaria.
Proprio una tale solitudine, tuttavia, è per lui rivelatrice del significato originale dell’alchimia, del tutto irriducibile a balbettamento prescientifico e avvicinabile piuttosto a una forma marginale di religiosità. Accettando, anzi ricercando la solitudine, l’alchimista sembrava infatti avere riconosciuto l’aspetto irripetibile, del tutto personale, del processo, in cui di fatto egli visse sé stesso, come l’esecutore materiale, come il “vaso” trasformato, dalla sua completa implicazione nelle operazioni compiute, dalle emozioni, dalle speranze e dall’attesa quanto al risultato perseguito: l’oro, redentore della stessa materia nella quale si trova nascosto e sepolto.
Afferma Aurigenna : “per Jung nel concretismo proiettivo degli alchimisti sembra esprimersi il bisogno che il fondo sotterraneo, l’inconscio irredento della loro stessa naturalità e dell’intera sostanza materiale si trasformi, esprimendo il suo “oro”, il suo significato nascosto. Essi operarono quindi non già alla redemptio microcosmi, alla redenzione individuale, che è il frutto dell’opera di Cristo, ma alla redemptio macrocosmi, cioè dell’intera natura; si vollero liberatori della divinità addormentata nelle cose come nelle oscurità del corpo e dei suoi istinti; assolvendo di conseguenza così, per lunghi secoli, una funzione in certo modo compensatoria non trascurabile nei confronti delle esigenze eccessivamente sublimatrici delle società cristiane, e della loro ignoranza o disprezzo per quanto è corpo e natura”.
L’interpretazione junghiana dell’alchimia si serve, su questo punto centrale, di una chiave che considera la più importante, forse, per comprendere l’opus: l’analisi del concetto alchimistico d’immaginazione.
Secondo la prospettiva junghiana, quindi, nell’attivazione dell’immaginazione, vissuta in concreto sulle sostanze trattate in laboratorio, l’alchimista viveva qualcosa di simile sia in Occidente e in Oriente, a proposito di quella disciplina che riguarda la via della saggezza.
Nello stesso tempo anche, nei percorsi psicologici si può individuare una stessa matrice, quando la ricerca analitica si sforza di estrarre comprensione nuova dai comportamenti che si presentano dapprima ciechi, oscuri e privi di significato, e dunque di estrarre, per dirla in altre parole, l’oro della presa di coscienza.
In questo senso per Jung è capitale l’esperienza soggettiva, per realizzare la presa di coscienza individuale e un modo più cosciente di sapere.
In questo testo sembra importante sottolineare che le sue “scoperte” psicologiche sono in realtà il ritrovamento di antichissime e universali esperienze, e per questo appunto egli le definisce archetipiche.
E poiché tali esperienze sono per loro natura malamente verbalizzabili, si comprende inoltre facilmente perché Jung abbia dato nel volume una così grande importanza alla iconografia: che non ha affatto soltanto fine e significato decorativo, ma è invece vero linguaggio integrato al testo.
Psicologia e alchimia è dunque, oltre che un’opera di scienza, uno strumento di cui Jung si serve per dimostrare la realtà di un istinto umano verso la saggezza, una pulsione, oggettivamente attiva nella psiche, a uscire dalle oscurità dell’ignoranza del senso delle cose per accedere alla conoscenza del loro significato latente.
Bibliografia
Benedetti G. (1969) Neuropsicologia , pag. 88
Eibesfeldt I. E., (1971) Amore e Odio. Adelphi, Milano , pag. 25.
Jung C. G. (1921) Tipi psicologici, Boringhieri, pag. 489.
Jung C. G. (1944) Psicologia e Alchimia. Boringhieri
Jung C. G.(1956) Mysterium coniunctionis.
Jung C. G.(1961) Ricordi, sogni e riflessioni.
Grazie per l’attenzione.
Dott.ssa Giulia I. De Carlo
Psicologa, Psicoterapeuta psicoanalitico
Studio Privato: Corso Gramsci 133, Palagianello (Ta) tel 3201987812