LE PSICOTERAPIE SONO EFFICACI?
Quali sono i fattori responsabili dei benefici della psicoterapia?
Per verificare se una psicoterapia produce dei benefici è necessario poter osservare nel suo procedere se ci sono stati miglioramenti, e se alla fine ha prodotto dei risultati. Vediamo come le verifiche possono riguardare sia dei momenti durante il processo terapeutico che l’effetto alla fine del trattamento. Naturalmente anche un clinico nel trattamento con un paziente fa una valutazione una tantum per fare il punto della situazione e verificare se il paziente sta progredendo. Questa abitudine che è solitamente prassi nella pratica clinica ha influenzato anche la ricerca facendo nascere due metodiche “l’outcome research” e la “process research”, cioè la ricerca sui risultati (outcome in inglese significa risultato) e la ricerca sul processo. All’inizio delle prime sperimentazioni ciò che sovente si andava a verificare era se un trattamento aveva realizzato un risultato desiderabile, per cui in un primo momento la ricerca era prevalentemente sui risultati. In seguito alla constatazione che effettivamente la psicoterapia mostrava di realizzare cambiamento psichico, ci si domandò come questo accadesse con precisione e se fosse possibile trovare delle metodiche che fossero valide per una buona parte delle persone che desideravano fare una psicoterapia, si sviluppò così la process research. La process research è la ricerca sui vari aspetti del “processo” della terapia, misurabile anche mentre la terapia è in corso e indipendentemente dal risultato; un esempio di process research è lo studio del rapporto tra misurazioni dell’ “alleanza terapeutica” (tramite precise scale di valutazione) in varie fasi della terapia rapportate ad altre variabili del processo stesso quali sesso o età di entrambi paziente e terapeuta, percentuale del tempo della seduta occupato dalle parole dell’uno o dell’altro, numero delle sedute o durata della terapia, frequenza settimanale, tipo e gravità della diagnosi, caratteristiche della personalità del terapeuta, e così via. Mentre una volta la domanda era semplicemente “la psicoterapia funziona?”, in seguito divenne “come e per chi essa funziona?”. Un aspetto importante è il fatto che oggi si è passati da domande sul risultato a domande sul processo.
Ma “l’outcome research” e la “Process research” a quali conclusioni hanno portato? Quali sono i responsabili dei benefici della psicoterapia, e quali sono i suoi meccanismi d’azione?
Gli studi sull’efficacia delle psicoterapia hanno dimostrato che i responsabili dei benefici della psicoterapia sono dei fattori comuni ( fattori aspecifici) a tutte le terapie, mentre quasi nessuna differenza si riscontra tra approcci differenti. Una prima dimostrazione di efficacia si osservò nei confronti della terapia cognitivo comportamentale. Nonostante negli ultimi anni si siano accumulate sempre più prove che le terapie derivate dalla psicoanalisi sono efficaci, da più parti – in libri, riviste, convegni, e nei mass media che fanno da cassa di risonanza – si continua a ripetere che la terapia cognitivo-comportamentale è la più efficace, come se questo fosse un dato incontrovertibile. Ebbene, basta approfondire la questione per rendersi conto che le cose non stanno così. La superiorità della terapia cognitivo-comportamentale poteva sembrare vera anni fa quando non vi erano ancora sufficienti ricerche sulla terapia psicodinamica – e tanti facevano l’errore di credere che se non era ancora stata studiata voleva dire che era stata dimostrata inefficace – ma quando il movimento psicoanalitico si è buttato nell’arena della ricerca empirica presto le cose sono cambiate. Ma tornando agli studi più importanti che hanno messo in evidenza l’efficacia della psicoterapia ricordiamo Smith e Glass (1977) che pubblicarono i risultati di 400 studi controllati, confrontando una popolazione che si era sottoposta a psicoterapia a un campione di controllo. I risultati mostrarono che è inequivocabile l’efficacia della terapia. Tutti gli individui, sottoposti a diverse psicoterapie di diverso indirizzo di studio, avevano avuto beneficio. Le prime inequivocabili conclusioni a cui giunsero i ricercatori fu che il meccanismo d’azione che rende la psicoterapia utile sarebbe attribuibile a fattori comuni a tutte le branche… fattori che identificarono, appunto, in “fattori aspecifici”.
Questo tema e affrontato dettagliatamente nel testo:
IL GRANDE DIBATTITO IN PSICOTERAPIA L’EVIDENZA DELLA RICERCA SCIENTIFICA AVANZATA APPLICATA ALLA CLINICA
WAMPOLD BRUCE E.; IMEL ZAC E.
“La psicoterapia funziona e la ricerca scientifica lo conferma”. E’ quanto ha affermato Bruce E. Wampold, PHD, (studioso e ricercatore in questo ambito) presso APA (Associazione Psicoanalitica Americana) nel 2001 all’ Annual Convention Symposium, “Psychotherapy Effectiveness: What Makes it Work?”
Wampold spiega che è complesso definire cosa fa si che essa funzioni, ma sicuramente la relazione ed il trattamento individualizzato giocano un ruolo chiave.
Secondo gli studi presentati da Wampold, ci sarebbero dei fattori comuni alla base di un buon successo terapeutico.
Questi fattori riguardano sia le risorse di partenza dei pazienti che le capacità professionali e interpersonali del terapeuta.
Alcuni fattori che rendono la psicoterapia efficace sono:
– Avere delle buone abilità interpersonali sia per il paziente che per il terapeuta.
– Costruire la fiducia e la comprensione con il cliente/paziente
– Creare un’alleanza con il cliente/paziente
– Avere un piano terapeutico flessibile
– Essere influente, persuasivo e convincente
– Monitorare i progressi del cliente/paziente
– Mostrare speranza ed ottimismo (senza essere banali)
– Tenere in considerazione le caratteristiche del cliente in relazione al contesto
– Essere riflessivo
– Basare il proprio lavoro sull’evidenza scientifica
– Migliorare continuamente attraverso lo sviluppo professionale.
Questa ricerca dimostra che con un buon terapeuta, la psicoterapia funziona meglio dei farmaci nel lungo termine ed ha degli effetti più duraturi. Inoltre, non solo ha dei costi minori, ma porta ad un numero minore di ricadute in alcune patologie come l’ansia e la depressione rispetto all’utilizzo dei soli farmaci.
Per quanto riguarda i vari orientamenti e le differenti tecniche le ricerche hanno messo in evidenza che alcune tecniche specifiche producevano dei benefici, mentre per altre la ricerca non si è ancora conclusa. Dunque quelli che sono i fattori specifici che differenziano le psicoterapie allo stato attuale la ricerca non ha dati conclusivi. Per cui non è possibile affermare che una tecnica o orientamento produca maggiori risultati rispetto ad un’altra semplicemente perché la ricerca va avanti e i dati sono attualmente insufficienti. In questo senso l’orientamento che è stato maggiormente penalizzato dalla ricerca è stato quello psicodinamico soprattutto per i tempi lunghi dei trattamenti, il numero ridotto della popolazione che si sottopone a questo tipo di trattamento e le tante tipologie di trattamento più o meno brevi provenienti dai vari approcci.
Dunque ci si domanda ancora se la psicoterapia psicodinamica è efficace?
Dall’andamento nel tempo delle varie ricerche che si sono susseguite vediamo che la ricerca in un primo momento si è focalizzata sulla scomparsa dei sintomi come segno distintivo di efficacia. Questo a portato a un disequilibrio tra orientamenti che si focalizzavano sul sintomo e orientamenti che si focalizzavano sull’individuazioni delle cause.
Infatti bisogna considerare che se alcune branche cercano di aiutare il paziente nella sua gestione dei sintomi focalizzandosi sulla loro scomparsa, la psicodinamica di solito non si concentra sul sintomo ma su quei aspetti profondi della personalità che ne rappresentano l’origine.
Questo perché la psicodinamica parte dal presupposto che la scomparsa di un sintomo non equivale necessariamente a uno stato di salute psichica, poiché i sintomi che sono all’origine di un malessere possono nel tempo gravitare e prendere varie forme, ora a carico dell’umore, dopo a carico del corpo e in seguito a carico del comportamento sociale ecc.. Dunque negli anni i ricercatori psicodinamici hanno cercato di colmare questo divario, ciò che è stato evidenziato e che li dove è possibile fare una valutazione i risultati mostrano che il benessere raggiunto con una tecnica di questo tipo di solito non porta a ricadute successive.
La valutazione dell’efficacia della psicoterapia dinamica è sempre stata una questione delicata, considerando i tempi, il numero esiguo di soggetti esaminati e il fatto che spesso chi intraprende un confronto con il proprio inconscio poi continua un percorso grazie al sentimento di rinnovamento che vive ad ogni trasformazione interiore. Per questo motivo è intuibile comprendere come un fenomeno così lungo sia numericamente limitato per poter dare alla ricerca dei dati quantitativi tali da giustificare una criterio di efficacia statistica.
Inoltre bisogna considerare che la lunghezza dei trattamenti, e anche una formazione che prevede un training dei formatori molto lunga e che va a toccare aspetti profondi e strutturali della personalità ha prodotto clinici molto esperti, specialmente su quelle dinamiche relazionali che portano a problematiche psichiche e sintomatologiche.
Questo tipo di clinici negli anni hanno raggiunto un livello alto di professionalità e una buona capacità di osservazione sul campo, parliamo infatti di dati empirici che vengono dalla pratica ma che a livello scientifico sono difficilmente misurabili, se non attraverso le stesse rilevazioni soggettive degli psicoterapeuti, parliamo per esempio del controtransfert come cassa di risonanza per fare una diagnosi.
Questo stato di cose ha portato ad oggi a un grosso divario tra l’empirico e lo scientifico. Le conclusioni che giungono i clinici nella loro pratica, su ciò che è efficace e ciò che non lo è, non è ancora stato dimostrato appieno dalla ricerca. Dunque la ricerca ad oggi è indietro rispetto la pratica clinica.
Purtroppo il mondo scientifico ha bisogno di “prove di evidenza” cioè dimostrazioni scientifiche dell’efficacia di una cura. Queste prove poi rappresentano quei giustificanti su cui poi i sistemi sanitari delle varie nazioni si basano per fare entrare le pratiche (la psicoterapia in questione) nel sistema sociale e sanitario.
Ci sarebbe bisogno da parte di tutti gli addetti che lavorano nel campo della psicoterapia di uno “spirito di corpo” per ridurre il divario che c’è tra la clinica e la ricerca. Purtroppo il settore ancora non possiede uno spirito di corpo tale per cui possa compensare le spinte individualistiche, e dunque l’obbiettivo comune cioè fare entrare di diritto la psicologia nel mondo in cui viviamo tarda a essere realizzato.
Se torniamo in po’ nel passato possiamo ricordare che questo è stato il messaggio testamentario di Jung con cui si congedò da questa vita. Il testo l’”Uomo e i suoi simboli” fu scritto da Jung per un grande pubblico, esperti, amatori e curiosi, non per gli addetti ai lavori, come aveva fatto sino a quel momento proprio con l’intenzione di aprire lo studio delle porte dell’inconscio alla collettività
Il fatto che non ci sia spirito di corpo nel settore ma molte divisioni e frammentazioni potrebbe essere dovuto a diversi fattori; da una parte c’è da considerare che la psicologia è una branca abbastanza giovane, dall’altro lato molti suoi esponenti potrebbero ancora essere alle prese con loro problematiche regresse non risolte e dunque non aperti a questioni di obbiettivi comunitari.
Infatti per quanto buoni i percorsi personali psicoterapeutici spesso le ferite, e le esperienze del passato alle volte superano le capacità di elaborazione personale, ciò è all’origine di conflitti, dispersione di energia e di intenti soprattutto nelle relazioni e nel sociale.
Il settore della psicoterapia probabilmente, un po’ come tutti gli ambiti professionali, soffre di questo male. Così come gli individui soffrono delle loro difficoltà ad entrare in profondità e realizzare il loro scopo nella vita, allo stesso modo un settore non realizza la sua missione se i suoi componenti hanno malattie nell’anima che non riescono a guarire… o se realizzano qualcosa è solo in parte. Di conseguenza a ciò non è possibile, sempre, perseguire un bene comune.
Ogni buon clinico comprende bene quale che sia il percorso naturale di sviluppo interiore di qualcuno che deve accompagnare, cliente o paziente, eppure le conflittualità tra clinici, scuole e approcci è ancora molto presente, ostacolando la realizzazuoni degli scopi comuni. Credo che Jung si stia domandando ovunque lui sia adesso “ se abbiamo capito qualcosa di ciò che voleva dire” … e quanto tempo ci vorrà finché si realizzi un po’ nella vita quella missione che lui assunse.
Il testo di Paolo Migone spiega bene dove la ricerca in psicoterapia è arrivata sino ad oggi, e quali prove di efficacia stia portando la psicodinamica.
Migone afferma che ad oggi sono stati evidenziati dalla ricerca solo conclusioni che gli addetti ai lavori avevano compreso bene nella pratica clinica. E dunque quei macro fattori ( fattori aspecifici a tutte le branche)… mentre le differenze di approccio e dunque i fattori specifici che distinguono ogni approccio non sono stati ancora adeguatamente analizzati, la ricerca è semplicemente ad oggi insufficiente.
Il fulcro, l’idea chiave intorno a cui gira tutta l’impostazione dell’intero volume da parte di Migone è la possibilità o meno di rendere compatibili ricerca clinica, interna al processo di cura ed extraclinica sperimentale cioè esterna al processo di cura limitatamente all’impostazione psicodinamica. Il mondo dei clinici e quello dei ricercatori sembrano non parlarsi, perché i primi si muovono nel mondo reale della relazione terapeutica, i secondi nel mondo ideale dei dati cosiddetti oggettivi o anche solo empirici. Fenomenologicamente si potrebbe dire che a questi ultimi interessa l’esperienza scientifica (Erfährung), ai primi l’esperienza vissuta (l’Erlebnis). L’interesse di Migone è quello di poter colmare questa distanza e di portare avanti una ricerca che metta insieme le varie forze.
Migone fa una riflessione che molti anni prima aveva fatto già Jung.
Infatti lui dice: “Si è dimostrato che i risultati della terapia psicodinamica possono aumentare nel tempo, come se il paziente avesse interiorizzato determinate capacità i cui effetti maturano gradualmente.” P. Migone (p. 9).
Migone mette in evidenza che la terapia psicodinamica produce all’interno dell’individuo un cambiamento nella qualità delle sue capacità riflessive. Questa nuova abilità acquisita durante il trattamento non solo permane anche dopo molto tempo dalla fine dei percorsi ma continua ad affinarsi migliorando sempre di più la capacità dell’individuo di andare in profondità e gestire la sua vita.
La stessa cosa notò Jung nei confronti di alcuni suoi pazienti. Infatti si stupì di questo effetto in quanto dalla sua pratica clinica aveva individuato conclusioni più o meno tipiche alla fine di un trattamento, a differenza, invece di alcuni suoi pazienti incontrati molti anni dopo che mostravano che la loro psiche aveva prodotto delle successive trasformazione alla pari di coloro che non avevano interrotto il loro percorso e confronto con l’inconscio.
Su questa tematica nel testo “Psicologia e Alchimia” scrisse a proposito delle tante fasi che nella vita e nella terapia si possono attraversare.
Riporto un lungo estratto dal sua libro in un quanto per comprendere la sua riflessione sembrerebbe necessario seguire il suo ragionamento.
Jung scrive:
“ I trattamenti psichici giungono a “una fine” in tutte le fasi possibili dello sviluppo, senza che si abbia contemporaneamente la sensazione di aver raggiunto anche “una fine”. Finali tipici, temporanei, hanno luogo: 1) dopo aver ricevuto un buon consiglio; 2) dopo aver fatto una confessione più о meno completa, ma comunque sufficiente; 3) dopo aver riconosciuto un contenuto essenziale, rimasto inconscio fino a quel momento, il quale, reso cosciente, porta come conseguenza un nuovo impulso di vita о di attività; 4) dopo un distacco dalla psiche infantile, ottenuto mediante un lavoro piuttosto lungo; 5) dopo aver trovato un nuovo modo razionale di adattamento a condizioni ambientali forse difficili о eccezionali; 6) dopo la scomparsa di sintomi dolorosi; 7) dopo che s’è verificata una svolta positiva del destino, per esempio dopo un esame, un fidanzamento, un matrimonio, un divorzio, un cambiamento di professione ecc.; 8) dopo aver riscoperto l’appartenenza a una confessione religiosa, о dopo una conversione; 9) dopo aver cominciato a costruire una filosofia pratica di vita (“filosofia” nel senso antico).
Benché questo elenco sia suscettibile ancora di parecchie modifiche e aggiunte, ciò nonpertanto esso caratterizza all’ingrosso, mi sembra, le situazioni principali nelle quali il processo analitico о psicoterapeutico giunge a una fine provvisoria, in certi casi a una fine definitiva. Ma a questo punto l’esperienza ci insegna che esiste anche una categoria relativamente numerosa di pazienti, per i quali la conclusione esterna del lavoro con il terapeuta non rappresenta in nessun modo anche la fine del processo analitico. Succede piuttosto che il confronto con l’inconscio continui, e proprio in modo simile a quello di coloro che non hanno smesso il loro lavoro con il terapeuta. S’incontrano talvolta questi pazienti dopo anni, e si apprende la storia spesso notevole delle loro ulteriori trasformazioni. ”
Vediamo che Jung giunge a suo tempo alle stesse conclusioni che i ricercatori psicodinamici oggi sono giunti. Questo porta alla constatazione che ricerca e clinica possono coinciliarsi. Da un lato la clinica può anticipare attraverso l’osservazione dei fenomeni psichici fenomeni trasformativi e metodi efficaci di cura.
La ricerca dal suo canto potrebbe mettere al vaglio della sperimentazione le consideraziomo empiriche dei clinici assodandone la bontà e l’efficacia, al fine di diffondere una buona pratica clinica validata anche dalle prove di efficacia.
Grazie dell’ attenzione
Dott.ssa Giulia I. De Carlo
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