Nel testo “Il genio delle Origini” dello psicoanalista P.C. Racamier l’autore mette in evidenza che durante l’infanzia il bambino deve imparare già molto presto a vivere i suoi primi lutti. L’ autore non fa riferimento alla perdita di persone care ma al fatto che la crescita è in sé un continuo dover lasciare andare delle abitudini per acquisirne di nuove. A spingere verso tutti questi cambiamenti è la natura con la crescente autonomia che dona al bambino grazie alla maturazione fisica. Racamier sottolinea che ogni nuova abilità è pagata a caro prezzo in quanto i genitori si sottraggono dal compito di provvedere loro a ciò che il piccolo ormai può fare da solo. Pensiamo ad esempio all’acquisizione dell’autonomia sfinterica, in quell’aquisizione il bambino sperimenta un certo orgoglio di sé ma perde anche tutte le attenzioni che gli adulti riversavano su di lui in precedenza. Ad un certo punto, dice Racamier, che un passaggio fondamentale per la crescita è imparare a lasciar andare, fare quel primo lutto che sarà il prototipo di tutti i piccoli lutti che nella vita bisognerà affrontare, chiama questo passaggio “LUTTO ORIGINARIO”. La madre di solito veicola questo difficile momento, lo prevede, lo anticipa, permette al bambino di non angosciarsi troppo dando un solido appoggio emotivo al suo superamento. Questo perché sa che è l’attraversamento del lutto originario a determinare la capacità di effettuare i grandi e i piccoli lutti di cui è disseminata l’esistenza. Queste fatiche a venire potranno essere affrontate solo in quanto siano state preparate dal lutto originario. Il cambiamento di ogni individuo passa attraverso delle evoluzioni ma ogni tappa mette in crisi le precedenti. Ogni crisi è un lutto. II lutto originario è quindi i modello di ogni crisi a venire, o addirittura di ogni cambiamento che si opera o che si impone. Nella crisi, come nel lutto, “si sa ciò che si perde prima di trova re ciò che si guadagna”. Ma per superare una fase è necessaria una certa fiducia di base negli altri e nel futuro. Ciò permette di affrontare la crisi senza eccessiva paura, e questo è valido sia per i piccoli che gli adulti. Afferma Freud nel testo “Lutto e melanconia” che il lutto è un processo lungo, che si affronta a poco a poco e che ogni volta in cui è necessario fare il lutto di qualcosa o di qualcuno è un lungo lavoro di ricostruzione della propria vita, in quanto questa è stata impoverita da ciò che è scomparso. Dunque il lavoro del lutto è un processo di perdita, impoverimento e accettazione della nuova realtà e infine rassegnazione di ciò che non esiste più e ricostruzione. Queste fasi accompagnano nello stesso tempo unlento riadattamento, cercando di sostituire con qualcos’altro, lembo a lembo, ciò che poi è andato perduto. Freud ha sottolinea il carattere progressivo del lavoro del lutto in cui si realizza un distacco della “libido” dall’oggetto perduto. Se rileggiamo questo passaggio vediamo con quali parole lui spiega questo lavoro:
“Non dimeno , egli scrive (in “Lutto e melanconia”), “i suoi ordini [parla della realtà] che ha sottratto l’oggetto amato non possono essere eseguiti immediatamente. Saranno compiuti un po’ alla volta, con grande dispendio di tempo e d’energia; nel frattempo, si prolunga psichica mente l’esistenza dell’oggetto perduto. Tutti i ricordi e le aspettative in cui la libido è legata all’oggetto vengono evocati uno per uno e investiti di ipercarica; rispetto ad essi si produce un distacco della libido”.
Racamier definisce questo lungo processo qualcosa che avviene “Spicchio a Spicchio” così come si sbuccia un agrume e sottolinea che è un percorso del tutto personale. Un esempio di LUTTO PERSONALE può essere rappresentato dai riti del lutto dei Mkoko dell’Africa. Inoltre mette in evidenza che è necessario che durante la crescita grazie alle relazioni parentali si sviluppino le abilità per fronteggiare tutti i cambiamenti che la vita imporrà. Cosi possono definirsi i mezzi e i metodi di cui l’lo si serve per far fronte ai propri compiti. Tra questi strumenti figurano i meccanismi di difesa, che sono ben conosciuti, ma anche i metodi di adattamento, di sopravvivenza, di resilienza, coping ecc.. Questi strumenti sono abitualmente a disposizione dell’Io che li ha forgiati a suo uso e consumo. Nel caso del lutto si osserva una frammentazione del processo del lutto (appunto “lembo a lembo”), che spesso consiste nella messa in attesa di questo lavoro in un primo momento. Poi possono subentrare momenti di dentificazione con l’oggetto perduto, parte si se si è persa con esso. Successivamente può subentrare la possibile ricerca di investimenti nuovi, la ripartizione degli affetti (tristi o d’altro genere), la raccolta mentale della pratica dei ricordi ecc.. La modalità in cui si affronta un lutto è del tutto personale e gli strumenti utilizzati dall’lo variano da soggetto a soggetto e anche da cultura a cultura. La popolazione dei Mkoko possiede dei riti che facilitano questo lavoro dell’io in seguito verranno raccontati alcuni.
ALLUTTARSI TRA I MKOKO tratto dal libro “Genio delle Orgini”
Scrive Racamier :
“Ho avuto il privilegio di imparare una quantità di cose assolutamente appassionanti sui rituali di lutto praticati presso certe popolazioni, in particolare tra gli Mkoko della regione bantu, grazie a M.me Coppet (etnologa e ricercatrice al CNRS), durante una giornata di studi organizzata dal Collegio di psichiatria di Lille e dedicata alla psicopatologia del lutto. In queste popolazioni (e naturalmente in molte altre) i rituali sono di una precisione straordinaria (tanto che, anche se ne avessi lo spa zio, non riuscirei a renderle pienamente giustizia); quanto al loro potere di significazione, esso è di un’ampiezza e di una profondità tale, che tutta la nostra scienza dei fantasmi, per tanto che siamo riusciti a svilupparla, durerebbe fatica a uguagliarla. Che il lutto duri per molto tempo, minimo un anno per la sua parte più importante, è cosa che non deve sorprenderci. Ma dalla descrizione che ne abbiamo mi sembrano risaltare due dati di grande interesse. 1. Il lutto è un processo attivo. Il compito dei “lutanti” consiste non solo nel consolare i vivi, ma anche nel “collocare” il defunto in seno agli antenati. Per un certo periodo, il defunto è un “morto-vivo” che esiste in stretta contiguità con vivi (qualche volta è perfino sepolto sotto il loro letto..). Ciò che importa, ciò che è addirittura essenziale, è respingerlo, spingerlo attivamente tra gli antenati, che sono dei morti-morti, e per di più esistono come tali solo in quanto i loro discendenti vivi rendano loro un sufficiente omaggio. Esattamente come Freud ha scritto, il lutto non si verifica se non poco per volta, un passo dopo l’altro. Ma la cosa più notevole in questa popolazione, in questo rituale, è il fatto che non si tratta di distaccare i vivi dal morto, ma al contrario di distaccare il defunto dalla compagnia dei vivi: di separarlo con forza dalle persone amate. Si direbbe che il morto si “agganci” e che si debba attivamente “sganciarlo” allo scopo di “collocarlo” tra gli antenati. Nell’attesa, egli si aggira tra i vivi in uno stato, come ho detto, di “morto-vivo”, di fantasma, per cosi dire. E in verità, quanti fantasmi conosciamo nei nostri pazienti e nelle loro famiglie, quanti fantasmi che continuano ad aggirarsi perché la perdita e la morte, lungi dall’essere state psicologicamente confermate, sono state solo negate? Ritroveremo presto i fantasmi. 2. Nel corso di questo processo, il compito dei “luttanti” è quello di separare le une dalle altre le parti di sangue e di sperma del “luttante” e del luttato’”. Queste parti costituiscono chiaramente l’eredità ricevuta dai genitori e, per mezzo loro, dagli antenati. II lutto consiste nel districare queste parti strettamente amalgamate tra il morto che viene pianto e il vivo che si protegge. Che il morto se ne vada con la sua parte e che il vivo conservi la propria! Che le parti si distinguano e si districhino! Il congiunto sopravvissuto è considerato nella tribù come contaminato, invaso dalle parti del morto che restano vive dentro di lui. Bisogna dunque “uccidere il morto perché la vita abbia luogo”. In effetti, “un morto che resta in vita si vendica portando la morte tra i parenti”. II diniego della morte del defunto genererà cioè altre morti o catastrofi tra i sopravvissuti: quello che noi abbiamo imparato con grande fatica, sembra che queste popolazioni lo sappiano per tradizione. Ultima precauzione, che non sorprenderà: nessun neonato riceverà il nome di un bambino morto finché l’anima di questi non sarà stata sistemata a dovere tra gli antenati. A fianco di questi lutti che arrivano a compiersi (non senza precauzione, non senza sforzo e non senza dolore) ci sono i morti cattivi che sono quasi altrettanto numerosi: quelli che corrispondono ai lutti falliti. (Venendo a conoscenza di tutti questi fatti, l’autore di quest’opera ha pensato che i lutti sono per tutti; che i lutti espulsi sono malefici: e che se l’antedipo è una favola, è una favola ben viva…)” (Racamier,1993, pag 66.