Non è cumune pensare che forse “la crescita e la scoperta di noi stessi” è il risultato di DEBOLEZZE, CADUTE PAURE che diventano poi PROVE DI CORAGGIO. È sovente ritenuto dalla mentalità comune che fragilità e sinonimo di debolezza. L’ essere vulnerabili o deboli viene vissuto spesso con vergogna, per cui chi la vive, cerca a volte di nasconderla al mondo a favore di una immagine di persona competente, forte e vincente. Eppure chi ostenta il proprio vigore non sempre è convincente, è come se sotto nascondesse qualcosa… insicurezza, superficialità, mancanza di competenza ecc.. Pensiamo per esempio a quegli adolescenti che ostentano sfrontatezza, che si vestono in modo sportivo o appariscente e assumono un linguaggio gergale. Tutti questi comportamenti sono il segno di un passaggio di crescita in cui l’aspetto esteriore sopperisce la mancanza, spesso di un’identità che è ancora in definizione. Poi non è detto che questa definizione si verifichi. “CHI SONO IO?” È la domanda che soggiace l’età della crescita e guida l’esplorazione di quello che si è, e di quello che si è capaci di fare. La domanda, “CHI SONO IO?” permette di costruire la propria storia, e in base a questa anche di prendere decisioni e fare progetti per il futuro. Ma venendo a fare i conti con se stessi, se si ha la forza di essere sinceri ai propri occhi, possiamo notare che non sempre siamo stati forti, intelligenti, integerrimi o abbiamo dato il meglio di noi stessi. È facile vedere quanti difetti nascondiamo, pensando che se qualcuno si accorgesse di questi non potrebbe accettarci e quando meno amarci. Eppure l’emancipazione da una condizione di immaturità è proprio dettata dal quel passaggio in cui cominciamo a metterci in discussione e riconoscendo i nostri limiti e difetti, ci prodighiamo per superarli, sempre se ne abbiamo il desiderio. La strada verso una maggior saggezza passa attraverso questo guardarsi dentro. Pertanto è possibile constatare, anche guardandosi indietro che le nostre evoluzioni sono il risultato di continui ostacoli, che ci hanno confrontato con i nostri limiti, le nostre paure, le disillusioni, i tradimenti e le continue cadute. E dunque la crescita e la scoperta di noi stessi è il risultato di DEBOLEZZE che diventano FORZE, CADUTE che diventano RIALZATE, PAURE che diventano PROVE DI CORAGGIO.
Dunque DOVE SI TROVA LA VERA FORZA?
Nell’immagine che spesso vogliamo dare al mondo di persone super-performanti o in quelle che nonostante tutte le difficoltà sono riuscite a risollevarsi? E non solo, chi riesce… nel difficile compito di affrontare i propri problemi, riconoscere i propri limiti, cadere per risollevarsi, chiedere aiuto quando non c’è la facciamo da soli… diventa una grande risorsa per chi gli è vicino. Diventa, insomma terapeutico, questo perché alla luce delle proprie difficoltà riesce a comprendere meglio gli altri, accettarli quando sono nel lato oscuro delle proprie problematicità, dare parole di conforto e saggi consigli. Si può affermare che l’essere stati capaci di trovare soluzioni ai propri problemi diventa una risorsa per se stessi e molto spesso un’arte che può essere anche tramandata. Non a caso se prendiamo la parola “terapeutico” questa deriva dal greco ϑεραπευτικός,’ (terapeuticos) parola composta da therapeyo cioè “assisto, curo” e tecnè ossia “arte” e pertanto in sé esprime il concetto che curare è un’arte e un’abilità. L’ immagine del GUARITORE FERITO è pertanto diventato quell’archetipo che meglio ha rappresentato questo aspetto delle qualità umane. Il GUARITORE FERITO richiama l’immagine di colui che ferito a causa di forza maggiore riesce comunque a risollevarsi. Ma per comprendere bene questo passaggio sembrerebbe necessario richiamare l’attenzione al mito di Chirone e alle vicende della sua nascita e crescita. Questo mito è molto evocativo perché è la rappresentazione di quella dimensione umana che entra profondamente in sintonia empatica con le ferite degli altri. Jung utilizzò l’archetipo del guaritore ferito per sottolineare l’ambiguità data dalla contemporanea presenza della forza e della vulnerabilità insite nella natura umana. Una fragilità che secondo la terapia junghiana non può prescindere dal funzionamento individuale e relazionale, soprattutto se di natura terapeutica come quello che caratterizza le dinamiche psicologo-paziente. Questo archetipo è ispirato al racconto del centauro Chirone, personaggio della mitologia greca. A questo proposito molto pertinenti sono le parole di Frank Ostaseski un famoso medico esperto nell’assistenza di fin di vita che rivolgendosi ai suoi collaboratori e allievi affermava:
“Non abbiate paura delle vostre ferite, dei vostri limiti, della vostra impotenza. Perché è con quel bagaglio che siete al servizio dei malati e non con le vostre presunte forze, con il vostro presunto sapere.” Frank Ostaseski
A questo proposito è doveroso ricordare le vicende che videro protagonista CHIRONE del mito per poter comprendere il legame tra quella vulnerabilità che diventa arte terapeutica.
Il mito di Chirone
Chirone era uno dei centauri, esseri per metà uomo e per metà cavallo che vivevano sul monte Pelio della Tessaglia, in Grecia. Mentre tutti gli altri centauri nacquero dall’unione di centauri, metà uomo e metà animale, e per questo avevano un temperamento irruento e poco riflessivo, Chirone venne generato, invece, dall’unione di Crono con Filira, figlia di Oceano. Egli nacque metà uomo e metà cavallo, perché per amare Filira nascondendosi alla moglie Rea, Crono, il padre, si trasformò in stallone. La natura di Chirone era ben diversa da quella selvaggia degli altri centauri: era saggio, benevolo, esperto di medicina e di altre arti. Il mito lo collega ad Apollo, Asclepio, Achille, Giasone ed Eracle. Era amico di Apollo, il quale gli insegnò ad usare l’arco. Quando Apollo ebbe da Coronide il figlio Asclepio, lo affidò proprio a Chirone perché lo istruisse sull’arte della medicina. Chirone seguendo il mito, avrebbe allevato anche Achille, figlio di Peleo e Teti, istruendolo nell’arte di cavalcare, cacciare, suonare il flauto e curare ferite. Infine educò anche Giasone al quale insegnò la medicina, come a tutti i suoi allievi. Causa della morte di Chirone fu una lancia avvelenata col sangue dell’Idra scagliata da Eracle nella lotta contro i centauri e che per sbaglio colpì il suo ginocchio. Eracle, angosciato, si adoperò per curare il vecchio amico in preda ad atroci dolori, ma nulla riuscì contro il potente veleno dell’Idra. Chirone in quanto immortale, non sarebbe perito, ma alla fine riuscì ad ottenere la morte scambiando la sua immortalità con la mortalità di Prometeo. La vita di Chirone finì tragicamente quando fu accidentalmente colpito da Ercole con una freccia avvelenata. La freccia fu intrisa nel sangue dell’Idra, un mostruoso serpente con molte teste che Ercole aveva ucciso come una delle sue 12 fatiche. Il veleno era così potente che causò a Chirone un dolore insopportabile. Non volendo vivere dovendo sopportare quel dolore Chirone decise di rinunciare alla sua immortalità per una giusta causa la donó a Prometeo. Il titano era stato incatenato a una roccia da Zeus e destinato a essere torturato da un’aquila per aver rubato il fuoco agli dei e averlo donato agli umani. Zeus accettò questo accordo e liberò Prometeo dalla sua punizione. Il mito narra che poi Zeus avesse collocato Chirone tra le stelle come costellazione del Centauro o del Sagittario, a seconda della fonte. La narrazione mitologica sottolinea il paradosso di un guaritore che è stato ferito a sua volta. La cosa sorprendente è che, in seguito a questa ferita, Chirone compie le gesta più compassionevoli donando la sua immortalità a Prometeo. Questo gesto gli permetterà di avere un posto tra le stelle. Possiamo interpretare questo mito come il percorso di evoluzione che i grandi saggi compiono durante la loro esistenza elevando così in alto il loro spirito, tanto da raggiungere le stelle. Jung direbbe che Chirone si sia elevato così in alto da entrare di diritto come archetipo di saggezza nell’inconscio collettivo dell’umanità e da lì eserciterebbe la sua influenza. Chirone fornisce l’immagine (archetipo) di un guaritore che non solo non risulta immune dalla sofferenza, ma che da questa prende lo slancio per i suoi più compassionevoli gesti. Il ricordo della sofferenza diventa quella condizione che permette Chirone, (o chiunque riesce a essere empatici nei confronti degli altri) ad entrare in sintonia con il dolore altrui diventando il propulsore dello slancio verso la vita, di contro la ferita sarà quel luogo da dove avrà origine la sua chiamata a guarire. In questo senso alle volte si menziona la metafora del veleno.
Ossia riferito ha fatto che quando si viene avvelenati per esempio dal morso di un serpente, per poter sopravvivere necessario l’antidoto è questo è possibile ottenerlo a partire appunto dal veleno originario. In maniera suggestiva si potrebbe affermare che se il veleno rappresenta simbolicamente il male che ha oppresso un individuo, allora, la chiave per la cura sta nella conoscenza profonda di quella sofferenza. È in questo modo che spesso è necessario agire in una relazione terapeutica, ossia nel rivisitare con la memoria i momenti di dolore. Il ripercorrere quei momenti permette la conoscenza di quel veleno che ha ammalato un individuo al fine di riuscire finalmente a comprendere qual è il suo personale antidoto.
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Dott.ssa Giulia Iolanda De Carlo
Psicologa Psicoterapeuta
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