Per Jung l’alchimia sarebbe un’antica “tecnica simbolica di trasformazione dell’anima”.
Nella Grecia antica si faceva a volte riferimento all’anima[1] con il termine psyche. Jung fu sempre molto affascinato circa quelle tradizioni che si rivolgevano all’anima perché intravedeva collegamenti con la dimensione psicologa dell’individuo. Il suo intento era quello di trovare grazie alle antiche tradizioni strumenti e tecniche per la cura psicologica. Da queste tradizioni trasse molte delle sue intuizioni avvicinandosi a molte culture e religioni diverse, una di queste fu l’alchimia. In particolare nell’alchimia medievale Jung notò come con le sue pratiche l’alchimista si poneva in contatto diretto con il suo inconscio promuovendo dei cambiamenti che penetravano profondamente nella sua persona. Lo psicologo svizzero intravedeva in questa disciplina un campo del sapere arcaico, inesplorato dalla scienza sperimentale, sul quale fondare le proprie teorie attraverso lo studio dei processi psichici d’integrazione: lo stesso Jung rivela come fosse stato un sogno rivelatore ad indirizzarlo verso l’alchimia. Secondo alcuni autori l’alchimia, per Jung, sarebbe una sorta di antica “tecnica dell’anima”, in grado di realizzare– mediante l’apparato simbolico – il Sé.
La metafora del laboratorio alchemico come luogo di trasformazione psichica: la trasmutazione del metallo (Io) nell’oro (Sé)
Il processo di individuazione sarebbe strutturato attraverso l’esplorazione integrativa dell’Io nell’inconscio. Tramite questa chiave interpretativa acquista particolare rilevanza l’immagine del laboratorio come metafora della personalità, attraverso cui ottenere la trasmutazione (principio d’individuazione) del metallo (Io) nell’oro (Sé). Le applicazioni alchemiche simboleggerebbero, ritualmente, il processo di perfezionamento interiore. Il lavoro dell’alchimista non sarebbe altro che un’allegoria inconscia del percorso di perfezionamento introspettivo. Secondo Jung l’alchimista nel suo operare attuava “la parabola del viaggio interiore del Sé”. In “Psicologia e Alchimia”, Jung analizzò simbolicamente le correnti alchemiche occidentali, allargando il campo di ricerca strutturale all’esegesi testuale. Cercò di fare una traduzione dei testi anche seguendo un senso simbolico: infatti identifica la materia con il principio di ordine femminile che compendia sinteticamente la trinità cristiana, esprimendo così la reintegrazione dello spirito con il mondo materiale ed il negativo. Nel Rosarium philosophorum[2], ad essere evidenziate sono soprattutto le “nozze chimiche” del re e della regina, associabili all’analisi del fenomeno del transfert. Nelle sue opere vediamo che Jung dedica grande spazio agli scritti di Paracelso, allo “spirito Mercurio” ed al simbolismo dell’albero. Ma è soprattutto la figura di Zosimo di Panopoli (III-IV d. C.), ad essere al centro dell’interesse junghiano.
L’influenza di Zosimo di Panopoli su Jung e le tradizioni antiche
Zosimo (in latino: Zosimus; Panopoli, ca. 350 – ca. 420) è stato un alchimista egizio di epoca romana, era di lingua greca e di nascita egizia. Fu il primo autore che scrisse opere alchemiche in modo sistematico e firmando la propria creazione. Nella sua riflessione giunsero a maturazione impulsi provenienti dal neoplatonismo, dal Cristianesimo, dallo gnosticismo e dall’ermetismo. Nel suo pensiero il processo di trasformazione dei metalli (per lo più da metalli vili a metalli preziosi, oro e argento) è simbolico di un percorso di purificazione e di iniziazione. Ad affascinare Jung, nei trattati di Zosimo, è stato, probabilmente, l’aspetto visionario dell’opera, sono state le proiezioni oniriche sull’oggettività della materia, percepita dagli alchimisti come sostanzialità intrinseca e non come mera risultante delle dinamiche del processo inconscio d’individuazione. Nel “Mysterium Coniunctionis”, l’ultima opera prima della scomparsa, Jung sembra rendersi conto che l’integrazione dialettica del quarto termine- la materia- nello schema trinitario divino, pur esprimendo simbolicamente la Totalità, non la realizza concretamente, limitandosi ad indicarne la mera possibilità. La posizione intellettuale di Jung sembra riconoscere che la concretizzazione del lavoro alchemico è data soltanto dall’unione effettiva, ossia spirituale, tra uomo e cosmo (Unus Mundus, secondo la terminologia dorniana). Ad ampliare l’orizzonte epistemologico delle ricerche junghiane sull’alchimia è stato merito di due continuatori della sua opera, Marie Luise von Franz e Robert Grinell. La prima collega le elaborazioni junghiane sulla coniunctio alchemica con la teoria della sincronicità, riallacciandosi al lascito della classica dottrina esoterica del “micromacrocosmo”, ossia della dimensione “antropocosmica” del Tutto. Grinnell, dal canto suo, preferisce concentrarsi sulla rielaborazione “alchemica” dei processi psicoidi, definiti come interazioni inscindibili di spirito e materia. L’alchimia, secondo Jung, compensa, integra, ricongiunge la lacerante scissione del corpo dell’uomo moderno con il Regno della Natura, riuscendo ad armonizzare nell’Uno la dicotomia del soggetto e dell’oggetto, dell’osservatore e del fenomeno.
Il dissidio intellettuale tra Jung e Freud e i successivi sviluppi nello studio dell’alchimia
Questo lungo viaggio all’interno del mondo alchemico non fu il frutto di una semplice curiosità intellettuale, ma l’approdo in una terra nuova dopo un lungo vagare. Lo psicoanalista svizzero confessò di essersi sentito a lungo isolato nella sua attività di ricerca, definendosi un solitario, poiché interessato a cose «che gli altri ignorano, e di solito preferiscono ignorare». Jung fu dapprima emarginato da una parte del mondo accademico di allora per il suo interesse verso le teorie freudiane e per quello strano metodo – la “psicoanalisi” – che si proponeva di curare gli isterici con la terapia dell’ascolto. Allo stesso tempo non condivideva il generale disinteresse della psicoanalisi circa quegli aspetti dell’animo umano, come la spiritualità. Per Jung, il pensiero di Freud era troppo focalizzato sulla libido e sul tema dell’incesto. Sin dagli inizi fu stimolato da argomenti riguardanti la dimensione sovrapersonale del simbolismo religioso e mitologico. Egli colse presto la valenza di strutture inconsce declinate nelle modalità di “a priori collettivi”, che definì “archetipi” – un concetto che Freud tendeva a minimizzare. Dopo essere stato allontanato da una parte dei suoi colleghi a causa della sua collaborazione con la società psicoanalitica, finì anche allontanato da questa. La rottura con Freud segnò per Jung l’inizio di un intenso periodo di disorientamento interiore e isolamento. Ebbe il timore che buona parte delle sue idee innovative fossero il frutto di “sue fantasticherie”. Jung dopo un intenso sodalizio umano e scientifico con Freud, nel 1912 si distaccò dalla psicoanalisi, il testo “Simboli della trasformazione” sancì l’inevitabile distacco da Freud soprattutto per il differente modo di intendere la libido. Ne seguì per lo psicoanalista svizzero un lungo periodo di serrato confronto con l’inconscio e le sue immagini archetipiche ciò lo portò a viaggiare in Africa in America e nel vicino Oriente. L’esperienza decisiva di quegli anni consentì lo sviluppo delle sue teorie, ma soprattutto di trovare con conferma delle sue teorizzazioni in diverse culture e tradizioni antiche.
Sogni di cambiamento: i sogni che influenzarono l’evoluzione del pensiero di Jung
Tra il 1918 e il 1926, Jung cominciò a interessarsi alle dottrine gnostiche, giudicandole, tuttavia, culturalmente troppo distanti dalla mentalità contemporanea. L’incontro con l’alchimia fornì il “ponte” del legame storico tra il passato stratificato nelle dottrine gnostiche e neoplatoniche e il presente, costituito dalla moderna scienza dell’inconscio. L’alchimia offrì a Jung le basi storiche su cui strutturare le proprie ipotesi di lavoro e le prefigurazioni letterarie dell’esperienza interiore maturata durante la giovinezza e nel primo periodo freudiano. Nel 1928, Jung ricevette dal grande sinologo tedesco Richard Wilhelm un testo di alchimia taoista, Il segreto del fiore d’oro, che gli dischiuse nuovi orizzonti speculativi. Nel suo lavoro “Ricordi, sogni, riflessioni” Jung scrive:
“Nell 1928 ricevetti una lettera di Richard Wilhelm, contenente il manoscritto di un trattato di alchimia taoista intitolato Il segreto del fiore d’oro, in cui mi pregava di commentarlo. Subito divorai il manoscritto, poiché il testo mi dava una conferma, mai sognata, delle mie idee circa il mandala e la circumambulazione del centro. Questo fu il primo avvenimento che interruppe la mia solitudine. Mi resi conto di un’affinità; potevo stabilire legami con qualcosa e con qualcuno”.
In particolare, grazie alla lettura di testi alchemici, riuscì a interpretare il significato di un sogno in cui si trovava imprigionato nel XVII secolo. Lo psicologo svizzero sognò di trovarsi in guerra e di rientrare dalle prime linee su un carro di contadino trainato da un cavallo. Successivamente, un castello comparve all’orizzonte e il carro entrò dal portone principale. All’improvviso, tutti i portoni si chiusero, e il contadino esclamò che lui e Jung erano prigionieri del XVII secolo. Jung colse questo evento come il segno della sua predestinazione personale allo studio sistematico ed esaustivo della letteratura alchemica. L’alchimia divenne per lui l’equivalente storico della psicologia del profondo, grazie alla quale poté concepire l’inconscio come un processo individuale e collettivo di trasformazione, in interazione e relazione con la sfera cosciente – una dinamica nota come processo di individuazione. L’alchimia offrì a Jung le chiavi esegetiche per interpretare un universo di significati simbolici e immaginali. La figura di Paracelso, ad esempio, permise a Jung di esaminare il rapporto dell’alchimia con la cultura religiosa del tempo. In Psicologia e Alchimia, Jung comparò e mise in relazione simbolica Cristo con il “lapis philosophorum”, la leggendaria pietra filosofale che gli alchimisti cercavano di produrre nei loro laboratori. Nel frattempo, diversi sogni confermarono a Jung di essere sulla strada giusta. Una notte, al risveglio, ebbe un’allucinazione ipnopompica e visualizzò un grande crocifisso verde-oro deposto ai piedi del letto. Egli interpretò la visione come un’esperienza alchemica di Cristo. Nell’alchimia, l’oro verde rappresenta lo spirito dell’universo, l’“Anima Mundi”, l’“Anthropos”, il “filius macrocosmi” che vivifica il mondo della manifestazione. L’archetipo dell’Anthropos, secondo Jung, è presente in molte tradizioni, in particolare nella cabala con l”’Adam Qadmon” e nella mitologia egizia con “Horus”, generato da Iside dal corpo smembrato del fratello-sposo Osiride. L’equivalente cristiano dell’Anthropos è costituito, sempre secondo Jung, da Gesù, il figlio dell’uomo e di Dio. Continuando a cercare similitudini tra psicoanalisi e alchimia, Jung identificò il transfert – punto focale della dottrina freudiana – con la coniunctio, lo stato di fusione estatica che l’alchimista sperimenta con la natura e il Tutto, unione tra microcosmo e macrocosmo; in termini junghiani, tra inconscio personale e inconscio collettivo. Jung, influenzato sia dalla lettura di mistici cristiani come Meister Eckhart, Nicola Cusano e Jacob Boehme, sia dalla conoscenza delle filosofie e religioni orientali, cercò di rivitalizzare una visione monistica del cosmo capace di superare le aporie teologiche del dualismo cristiano tra la bontà di Dio e l’esistenza del male. In questa prospettiva, A. D’Alonzo afferma: «La coniunctio alchemica, lo Hieros gamos, equivale alla coincidentia oppositorum cusaniana o alla moksha indù, al riconoscimento dell’unio mystica tra il Sé e l’Universo: “con un Dio che è una complexio oppositorum, un ‘tutto possibile’, nel significato più pieno dell’espressione: la verità e l’inganno, il male e il bene”». Nel testo “Il segreto del fiore d’oro”, Jung descrisse il processo taoista di circolazione dell’energia vitale all’interno del corpo, ma soprattutto riuscì a mettere in relazione la ricerca dell’elixir interno cinese (nei tan) con l’istanza medievale cristiana del corpo spirituale, giungendo all’intuizione decisiva sul segreto dell’opus come unione degli opposti e trasmutazione della materia grossolana in materia spirituale. In termini psicoanalitici, ciò equivale all’interrelazione tra coscienza e inconscio, un processo volto a determinare il Sé o principio d’individuazione. In “Mysterium Coniunctionis”, l’ultima vera opera prima della sua scomparsa, Jung affrontò i testi di Ripley, Dorn e Abraham Eleazar, basandosi sull’analisi ermeneutica del simbolismo alchemico. La coniunctio junghiana della materia e dello spirito si colloca in un “luogo intermedio” (metaxû), dove coscienza e materia psichica si integrano interagendo. Negli stessi anni, un altro autore, Henri Corbin, si affacciò sul mondo accademico con temi affini. Egli definì tale strato psichico come condizione “Imaginale” dello psichismo, dando inizio a una serie di ricerche che delinearono gli studi contemporanei sull’immaginario collettivo. Questi studi furono avallati dagli junghiani e da studiosi di altre discipline, come Gilbert Durand, teorico di un’antropologia dell’Immaginario.
Bibliografia
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- Dizionario dei simboli. (1999). Bur, Milano.
[1] Nella Grecia antica si faceva a volte riferimento all’anima con il termine psyche, da collegare con psychein, che significava «respirare». Questa parola riconduce all’idea del “soffio”, cioè del respiro vitale; presso i Greci designava l’anima, in quanto originariamente identificata con quel respiro
[2] Rosarium philosophorum (cioè Rosario dei filosofi,) è un testo alchemico del XIII secolo, tradizionalmente attribuito ad Arnaldo da Villanova (1235-1315), famoso medico e alchimista dei suoi tempi. L’autore potrebbe essere tuttavia un anonimo della fine del XIV secolo.
Il titolo Rosarium è collegato alla simbologia della rosa, che dall’antichità e per tutto il Medioevo rimase, fra l’altro, associata all’idea della perfezione e dell’infinito.
L’opera contiene fra l’altro 20 illustrazioni che rappresentano i momenti fondamentali dell’opus, il procedimento alchemico che porta alla creazione della pietra filosofale