I dati degli esperti mettono in evidenza che i pazienti chiedono una consulenza psicologica in precisi momenti della loro esistenza, quando si sentono in profonda crisi. Per il clinico questi momenti sono di fondamentale importanza perché ogni crisi mette in causa le fondamenta dell’equilibrio del soggetto. In questi stati è possibile osservare a quale livello è giunto lo sviluppo individuale e dunque comprendere quale è la sua struttura profonda. Questa condizione è utile per avanzare una diagnosi psicodinamica di organizzazione di personalità che in altri momenti non sarebbe altrettanto possibile. Infatti nei momenti in cui un individuo riesce ad adattarsi alle circostanze della vita potrebbe usare vari meccanismi più o meno evoluti nonostante la sua struttura profonda. Questa plasticità del funzionamento più superficiale del comportamento degli individui puo confondere il clinico e non dare informazioni sullo “statuto dell’ oggetto” e sul tipo di economia psichica. Dunque la struttura di base viene allo scoperto in quei momenti in cui degli specifici eventi riescono a sollecitarne in modo pericoloso le sue fondamenta. Specifici eventi possono mettere in evidenza i limiti di alcuni meccanismi di difesa messi in atto sino a quel momento e la necessità di trovarne alcuni più efficaci. La crisi mette in discussione l’individuo nella sua totalità e apre attraverso gli stati di sofferenza una finestra verso l’interno di se stessi. Il passato irrompe con le problematiche non risolte, le falle e le ferite che hanno bloccato l’individuo ad un certo livello nella maturazione emotiva escono allo scoperto. Questa condizione se da una parte è di grande sofferenza dall’altra invece rappresenta un’opportunità, quella di ripartire lì da dove ci si è fermati.
Paul-Claude Racamier nel suo testo “LA CRISI NECESSARIA. Il lavoro incerto” affronta la questione dei momenti di profonda crisi in cui una persona comprende che è importante chiedere una consulenza. Egli sostiene che nella sua esperienza è capitato che qualcuno chiedesse una consultazione perché i suoi sintomi erano diventati troppo penosi: l’ossessivo ne aveva abbastanza delle sue idee ossessive, il fobico delle sue paure, ecc. Se si guarda da vicino queste situazioni ci si può facilmente convincere che la crisi non è un fulmine a ciel sereno ma spesso la conclusione di una lunga evoluzione interiore individuale. Possiamo pensare che possa insorgere proprio in seguito a momenti di grande lucidità in cui ci si rende conto che qualcosa non và come dovrebbe andare. Di solito i meccanismi di difesa si attivano quando un individuo non riesce a tollerare delle verità che lo turbano, i sintomi che insorgono sono un tentativo molto dispendioso di ritrovare uno pseudo-equilibrio. Racamier mette in evidenza che in questi momenti della vita le difese sono molto consolidate, e solo un trattamento di lunga durata sembra poter consentire un qualsiasi miglioramento. Eppure, un esame attento, permette sempre di vedere che il soggetto chiede aiuto in momenti precisi che riguardano tanto il suo rapporto con l’ambiente che il rapporto con se stesso.
Racamier afferma che la crisi è necessaria perché rappresenta quell’elemento propulsore per realizzare tutta una serie di cambiamenti “necessari” per il bene di una persona.
L’autore durante la sua esperienza clinica ha notato che alcuni individui entravano in crisi perché si sentivano rimessi in questione dal proprio ambiente, altri, invece reagivano molto di più a situazioni che entravano in risonanza con la loro vita fantasmatica. Una volta fece l’esperienza di osservare un carattere fobico obbligato senza posa dalle proprie angosce a progredire nel proprio lavoro. Questo dopo tanta fatica arrivato al vertice della piramide, ebbe un brusco scompenso a causa di sentimenti di colpa inconsci. La sua struttura nevrotica aveva retto fino a quando obbediva al dettato di lavorare del super-io. Il raggiungimento della metà desiderata però confrontò questo individuo con le difficoltà nel godere a pieno dei suoi desideri, esperienza che risaliva alla formazione del suo Edipo. Il senso di colpa che inruppe a scompensarlo mostrava come all’epoca dell’edipo (in cui sentì il padre come rivale perché voleva la madre per sé) temette di essere punito e evitato dal padre. Il senso di colpa era la conseguenza del “fantasma di castrazione” che aveva organizzato la sua vita sino a quel momento, infatti si può immaginare che questo soggetto sia uscito dall’edipo promettendosi di rispettare la legge del padre rinunciando alla madre. Nello stesso tempo sentendosi angosciato (angoscia di castrazione) delle conseguenze avvenute a causa della soddisfazione dei suoi desideri verso la madre ha sviluppato un carattere fobico. Questo è un esempio ma Racamier mette in evidenza che gli scompensi possono intervenire in occasione di differenti eventi: la nascita di un figlio, l’adolescenza, il matrimonio dei figli ecc.. In questi casi, avvenimenti esterni stimolano la vita fantasmatica inconscia dei soggetti e risvegliano angosce fino allora saldamente controllate mediante una stabile regolazione difensiva.
Dunque, la vita di ogni essere umano è minata da un certo numero di rotture nella continuità temporale da situazioni di cambiamento o di crisi. Lo studio di queste situazioni di crisi psicologiche mostra che l’uomo prova un profondo bisogno di ristabilire un sentimento di continuità quando questa viene rotta e ciò con tutti i mezzi possibili. Spesso la motivazione che spinge alla consultazione dipende da situazioni che hanno rotto l’equilibrio che un soggetto era riuscito a mantenere sino a quel momento. Quando la vita lo pone di fronte a una qualsiasi rottura, l’individuo cercherà nel terapeuta la continuità che egli ha perso. Riflettendo su questo aspetto si può comprendere la profonda tendenza dell’uomo alla ripetizione quello che i sistemici chiamano “pattern ripetitivi”, e gli psicoanalisti “coazione a ripetere”. La ripetizione e la temporalità sono due aspetti strettamente legati nelle psicoterapie, in quanto è l’incontro tra realtà materiale (esterna) e realtà psichica, e tempo dell’orologio (naturale o artificiale) e tempo soggettivo che continuamente oscillano nella stanza di analisi.
Il caso clinico che segue è stato preso dal testo “Trattato di psicoterapia brevi” di E. Gillieron si tratta di una diagnosi di personalità di falso sé venuto in consultazione per problematiche relazionali.
Gli aspetti che si intende mostrare è come si può presentare una personalità di questo genere all’osservazione del clinico, cosa le mette in crisi, che tipologia di relazione si va a stabilire e quali cause sarebbero all’origine della sua organizzazione di personalità.
In questo senso l’autore ritiene che possiamo pensare che quello che si realizza tra paziente e terapeuta è un “tempo relazionale” dove nel presente si può produrre una nuova riedizione delle dinamiche relazionali del passato.
In un articolo del 1968, H. Stierlin, alla luce di una teoria generale dei rapporti umani, rilevava l’importanza di ciò che egli ha chiamato «la bilancia momento-durata» che il lustra il significato del tempo nelle relazioni interpersonali. Egli mostrava, per esempio, che il grado di profondità di un rapporto varia enormemente in funzione della conoscenza che si ha dell’altro, ma anche in funzione di altri fattori che possono entrare in gioco. Stierlin nota che in un rapporto breve in cui il futuro è quasi assente, può esistere una specie di «empatia distaccata», e questa empatia, spesso molto attiva, permette di percepire, senza rischi, nell’interlocutore problemi molto profondi, mentre quest’ultimo, sapendo pure breve il rapporto, tenderà a rivelare gli aspetti più intimi, più nascosti della propria personalità. Questo succede in virtù dell’ occasionalità della relazione, in un certo senso se il rapporto prosegue, tutto ciò che era stato scoperto al primo approccio può complicare la situazione. A proposito della relazione terapeutica Gilliéron sottolinea un fenomeno che può avvenire nei primi momenti degli scambi comunicativi e che può accadere, anche, all’inizio di un trattamento: i problemi del paziente possono apparire chiaramente, ma le interrelazioni successive e le reazioni di natura difensiva possono ad un certo punto oscurare le prime intuizioni.
Questo oscuramento, se accade potrebbe promuovere riedizioni di transfert. Se i moti conflittuali poi lo permettono l’elaborazione di questi vissuti in terapia possono generare profondi cambiamenti nel paziente. Una situazione di questo tipo è accaduta nel caso clinico che verrà presentato.
Grazie a questo sarà possibile illustrare il fatto che la natura di un rapporto porta l’impronta del tempo interno dei partner, ossia quello legato alla loro struttura di personalità. Nel 1982, J. Cain affrontava la questione in questi termini:
«Questo ci porta a evocare (…) I’ ipotesi di un terzo tempo, tempo intermedio di cui si può dire nel modo più semplice che si colloca tra i due partner della cura, o in modo più generale tra l’Io e il mondo. Infatti, se alcuni (Racamier, Pasche, Winnicott) hanno invocato una topica terziaria degli spazi, si può aggiungere che esiste altrettanto un aspetto terziario del tempo: al tempo interno puramente fantasmatico e al tempo esterno misurato dal cronometro si aggiunge un terzo tempo, tempo che unisce i due precedenti e nel quale può collocarsi la parola, il che esclude la psicosi». Lo psicoanalista J.-F. Kafka rilevava che la comprensione da parte del terapeuta della realtà interna del paziente dipendeva fortemente dai loro ritmi di comunicazione (1993).
Questo caso clinico viene riportato così come l’autore lo ha affrontato nel suo testo
Un giovane dall’approccio affabile e simpatico aveva chiesto una consultazione per delle difficoltà sentimentali e relazionali in generale: diceva di non riuscire a stabilire dei veri contatti con le donne che facilmente s’innamoravano di lui (era un bel giovanotto) ma lo lasciavano tutte dopo un po’ che lo frequentavano. Per di più, benché eccellente nella sua professione, non riusciva a farsi apprezzare e nemmeno a farsi intendere, quando per esempio faceva presente ai colleghi un errore. Nei colloqui, lo psicoterapeuta ha a che fare con un uomo sensibile, che accetta volentieri le interpretazioni (troppo facilmente, si potrebbe dire ora). All’epoca, le idee del terapeuta sull’organizzazione della personalità erano ancora abbastanza sfumate ed egli aveva l’impressione che quest’uomo, manifestamente intelligente, soffrisse essenzialmente di inibizioni che gli impedivano di farsi valere. Si concordò una psicoterapia psicoanalitica. Questa si svolgeva bene, il che dava l’impressione di un’eccellente comprensione reciproca. Tuttavia, dopo un certo tempo, lo psicoterapeuta si accorse, con un certo disagio, che, senza rendersene conto, aveva adottato con questo paziente un comportamento del tutto particolare. Questi era così collaborativo che, ogni volta che si presentava una difficoltà di orario, ricorreva a lui per uscirne fuori spostando le sedute, tanto che queste, nel corso dei mesi, vennero fissate di volta in volta alle 7 del mattino, poi a mezzogiorno o anche alla sera o a metà pomeriggio, cambiamenti tutti che il paziente accettava senza la minima difficoltà. Sembrava non risentire nulla delle modifiche dell’orario. Quanto al terapeuta, era soddisfatto di tale compiacenza che gli sembrava il riflesso di una grande fiducia. Fu un atto mancato a risvegliare l’attenzione del terapeuta: il paziente dimenticò una seduta. In seguito a questo avvenimento, il paziente accusò il fatto che, contrariamente a quanto avvenuto fino allora, aveva risentito fortemente dell’ultimo cambiamento di orario, infatti si era trovato smarrito e aveva temuto di non poter contare veramente sull’altro. Ora, disse, «ho l’impressione di accorgermi per la prima volta di avere voglia di appoggiarmi a qualcuno». Questa reazione inattesa diede da riflettere allo psicoterapeuta. Il tono delle sedute cambiò totalmente dal momento che il paziente aveva messo in evidenza l’importanza del setting temporale. Era come se, per la prima volta, tale setting contasse, ma anche e soprattutto come se per questo paziente l’interlocutore cominciasse a esistere veramente: egli, infatti, non si accontentava più di accettare le interpreta zioni, le discuteva, le elaborava e le utilizzava. L’atteggiamento precedente era sicuramente ispirato dalla sua organizzazione di personalità che, secondo il DSM III, sarebbe stata certamente qualificata «evitante», o corrispondente a un «falso Sé» secondo Winnicott; ma, ci si poteva inoltre interrogare su un problema tecnico. Si aveva infatti la sensazione che se il setting temporale non fosse stato a più riprese inconsciamente modificato, il paziente avrebbe provato molta più difficoltà ad avvertire l’importanza della costanza del permanere di una relazione. E per un ironia della sorte questa costanza era stata richiesta da lui proprio perché non gli era stata offerta.
Queste osservazioni sollevano più ordini di questioni e in particolare:
-1) il rapporto del funzionamento psichico col setting psicoterapeutico;
– 2)la natura della relazione terapeutica e più in particolare la questione della frustrazione e del transfert nelle personalità segnate da importanti carenze affettive;
-3) le caratteristiche che deve avere un’interpretazione per essere di natura mutativa con questo tipo di personalità.
Analizzeremo punto per punto questi tre quesiti.
1) Il setting psicoterapeutico è un rivelatore del funziona mento psichico; è in rapporto ad esso che si può definire la natura delle difese, delle resistenze e del funzionamento del paziente. È noto che la personalità come quella del nostro paziente sembrano terrorizzate dalla costanza del setting psicoanalitico. Ricordiamo che secondo il DSM si sarebbe trattato di una personalità “evitante” Questi soggetti, infatti, nei confronti di un setting costante vivono una profonda angoscia, per questo moltiplicano gli acting out, saltano sedute, propongono cambiamenti di orario e si lamentano per la nostra mancanza di comprensione.
- La relazione terapeutica. L’analista, che è il garante del setting, si trova nella necessità di interpretare questo agire; eppure questi pazienti non sentono tale atteggiamento come il riflesso della comprensione dello psicoterapeuta, ritengono semplicemente che sia quest’ultimo ad aver bisogno di loro mentre loro stessi non hanno potuto fare a meno di tale costanza. Si assiste cosi a degli scambi ripetitivi da cui è difficile uscirne e che alimentano le resistenze giacché, per questo genere di casi, la costanza offerta dallo psicoanalista irrompe nella vita del paziente e rappresenta una gratificazione intollerabile che vieta la presa di coscienza.
Il riferimento al passato del paziente dell’esempio ci permette di capire meglio che cosa intendiamo con questo.
- L’interpretazione
In seguito all’episodio ricordato, lo psicoterapeuta apprese che il suo paziente aveva vissuto in un ambiente familiare segnato da un grave conflitto tra i genitori. Il padre, per sottrarsi a una sposa cronicamente insoddisfatta, si era progressivamente allontanato dal focolare, lasciando al bambino la cura di occuparsi della madre. Quest’ultima sembrava incapace di percepire i bisogni del figlio la cui presenza veniva utilizzata secondo i suoi stati d’animo. Si confidava con lui e passava il tempo a lamentarsi per respingerlo brutalmente quando diventava ingombrante. Il bambino aveva quindi imparato due cose: mettere a tacere i propri bisogni affettivi e spiare quelli della madre, senza saper mai se sarebbe riuscito a soddisfarli. I suo mondo interno era quindi costruito sulla base di una duplice convinzione: la mancanza di valore dei propri bisogni e l’incostanza di quelli dell’altro. Ma questi elementi poterono essere percepiti solo dopo l’atto mancato del paziente. Se si ritorna agli inizi della psicoterapia, ci si accorge che lo psicoterapeuta, chiedendo al paziente di tener conto del proprio orario, era stato spinto inconsciamente a imitare il comportamento materno. Con ciò, gli proponeva un mondo noto, il che era l’equivalente di una gratificazione. Con il suo controtranstert inconscio aveva costretto a rispondere con l’agire al transfert del paziente. Paradossalmente, i cambiamenti di orario rassicuravano quest’ultimo in quanto riproducevano il passato e proteggevano quindi ciò che c’era di «centrale» in lui (il «Sé»), secondo l’espressione di Winnicott. Ma questa ripetizione del passato era solo apparenza in quanto, contrariamente alla madre, lo psicoterapeuta non negava i bisogni del paziente; egli si mostrava disponibile, ma solo quando non aveva da «soffrirne». Era questo punto a costituire la vera frustrazione che ha mobilitato il transfert. Di fatto, lo psicoterapeuta imponeva al paziente una relazione troppo genitalizzata perché questi fosse in grado di sopportarla: era per occuparsi anche di qualcos’altro (qualcun altro?) che da parte dello psicoterapeuta non veniva assicurata la continuità del setting temporale. Le rotture del setting temporale avevano un senso diverso per lo psicoterapeuta e per il paziente, ed è in questa faglia che è nata l’idea di un personaggio costante e capace di rispondere ai bisogni altrui, idea che in se stessa «rappresentava» un profondo cambiamento e l’interpretazione che ne ha dato lo psicoterapeuta è apparsa so lo nell’après-coup. «L’orologio» interno del paziente s’in scriveva nell’atemporalità (il tempo non conta, non esiste), quello del terapeuta nella temporalità. Insisteremo qui sul fatto che il comportamento dello psicoterapeuta non era concertato, non si era trattato, per esempio, di proporre una «esperienza emozionale correttiva». E stato il paziente stesso a suggerire tale correzione, proponendo una maggiore costanza del setting quando la situarazione gli è diventata insopportabile; a partire da quel momento, si è messo veramente a parlare della propria vita interna, dei suoi bisogni affettivi e del suo passato.
Riflessioni sul caso da parte dell’ autore
Gillièron scrive a proposito delle riflessioni teorico cliniche su questo paziente:
“Noi pensiamo che non si possa parlare di funzionamento psichico, di vissuto temporale o di conflitto intrapsichico senza tener conto del contesto in cui tali manifestazioni appaiono. Cosi, l’esempio presentato mette chiaramente in luce il fatto che la costanza dell’oggetto interno, per l’osservatore, può apparire come un’incostanza e che ne possono derivare importanti malintesi. Allo stesso modo, la temporalità caotica dello schizofrenico, in realtà, è caotica solo per gli altri; per lo schizofrenico essa rappresenta la costanza del suo mondo ed è la rigidità delle regole che a volte gli si vogliono imporre a fare intrusione e a di struggere pericolosamente i suoi punti di riferimento. Per quanto riguarda il caso esposto sopra, è molto probabile che se si fosse imposto immediatamente un setting temporale rigido, il paziente non sarebbe entrato in rapporto col suo psicoterapeuta che sarebbe risultato appartenere a un mondo troppo estraneo. All’opposto, se ci si fosse eventualmente assoggettati ai suoi «capricci» accettando, per esempio, che fissasse lui stesso gli orari delle sedute, non lo avrebbe sopportato in quanto sarebbe apparsa una gratificazione altrettanto inaccettabile. Paradossalmente, è il fatto di avergli chiesto di tener conto degli imperativi personali dello psicoterapeuta che ha permesso di entrare nel suo mondo senza spaventarlo ed è stato probabilmente il fatto di essergliene riconoscente ad avere aperto la breccia che gli ha permesso di prendere coscienza delle proprie attese. Offrendogli un setting temporale incostante lo si gratificava; lo si frustrava invece facendogli sapere che ci si occupava d’altro. Uno dei punti essenziali che salta fuori qui e che ci sembra importante ricordare, quando ci s’interessa delle psicoterapie brevi, è che il setting temporale che proponiamo ai nostri pazienti non risponde sempre ai loro bisogni profondi. Per evitare che le psicoterapie diventino eterne o s’interrompano prematuramente, è del tutto vantaggioso tener conto non solo del funzionamento psichico del paziente, ma anche della portata delle misure che racco mandiamo su questo funzionamento psichico. Cosi, quando viene evocata l’atemporalità dei processi inconsci, il problema è di sapere di quale atemporalità si tratta: quella del paziente o quella dello psicoanalista?”
Qui si potrebbe citare questo notevole passaggio di Masud Khan (1976, pp. 48-49), che richiama la regressione di certi pazienti non nevrotici.
Egli si esprime cosi: «È la regressione dell’Io nella situazione analitica verso gli stadi primitivi di dipendenza e di affettività indifferenziata, non integrata che egli cerca disperatamente. Sta li anche l’origine della loro resistenza più coriacea e del loro negativismo. È appunto in quest’area che la valutazione del bisogno (inconscio) del paziente impone alla sensibilità immaginativa dell’analista un pesante fardello. I pazienti gli impongono effettivamente il ruolo dell’ambiente primario. Essi dipendono terribilmente dalla capacità che l’analista ha di empatizzare con loro e di cristallizzare tutto questo in un’esperienza affettiva dell’io. Molto spesso, con loro questo bisogno viene preso come un invito a intervenire e a dirigere, a guidare e a correggere. E non è questo che il paziente cerca. Se agisce in quel modo, l’analista non fa che sostituire una serie di sconfinamenti con un’altra, benché meno nociva. Il vero compito dell’analista è piuttosto di permettere al paziente di sperimentare regressivamente e affettivamente, nel setting analitico, la realtà totale e frammentata che tenta di porre sotto controllo magico; esso mira anche a rendere possibile, nel paziente, una elaborazione dall’interno, mediante l’esperienza di questa nuova relazione che emerge tra lui, l’analista e la situazione analitica. Ciò significa che la realtà e le limitazioni dell’analista, in quanto persona, sono chiamate a diventare più visibili nel processo, ma esse assumono valore solo se collegate, in qualsiasi maniera, ai bisogni del paziente e alla situazione clinica».
Masud Khan mette in evidenza come spesso il terapeuta ha il compito di permettere al paziente di rivivere eventi precoci della sua infanzia e il ruolo difficile a cui deve adempiere è quello di supportare questi moti interni. È in questo senso che si può intendere il riferimento del fardello che deve portate il terapeuta di cui parla Khan. Secondo l’autore poi la persona del terapeuta nel momento in cui agisce diversamente dalle aspettative di transfer viene sempre più a essere una nuova entità per il paziente.
Sottolinea Khan la realtà e le limitazioni dell’analista, in quanto persona, sono chiamate a diventare più visibili nel processo, ma esse assumono valore solo se hanno un senso preciso in relazione al bisogno negato che è alla radice dei blocchi nell’evoluzione della maturazione psichica di un individuo.
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