Nota storica sullo sviluppo della teoria psicosociale di Erksion e l’eredità di Freud
Quali furono gli eventi di vita di Erik Erikson che portarono alla formulazione della sua teoria dello sviluppo psico-sociale? La riflessione intorno al ruolo della “realtà esterna” fu l’elemento centrale che ispirò l’autore nella formulazione delle sue tesi. Questo aspetto fu un tema molto dibattuto negli ambienti psicoanalitici. Dopo le osservazioni sui pazienti Freud formulò la tesi che a essere preponderante a proposito della vita degli individui non era la loro storia autobiografica ma cosa questa aveva prodotto come riflesso nella loro interiorità . Gli effetti degli eventi di vita secondo lo psicoanalista creavano una “realtà psichica” che poi rappresentava quella base nei confronti della quale si sviluppavano i sintomi. Questo modo di intendere l’interiorità contrapponeva la “realtà psichica” ossia quella soggettivamente vissuta dalla “realtà esterna” rappresentata dai fatti ( storici o autobiografici) così come potevano essere raccolti da un soggetto non coinvolto emotivamente. In contrapposizione a questa tendenza Erikson volle rimettere in campo la questione della “realtà esterna”. Il suo interesse però erano i risvolti sociali del susseguirsi delle fasi dello sviluppo psico-sessuale di Freud. Prima di andare avanti è opportuno comprendere chi era Erickson e in sintesi alcuni aspetti del suo pensiero e della sua formazione.
Introduzione: cenni sulla vita e sul pensiero di Erik Eriksson
Erik Homburger Erikson (Francoforte sul Meno, 15 giugno 1902 – Harwich, 12 maggio 1994) è stato uno psicologo e psicoanalista tedesco naturalizzato statunitense. La sua figura ha assunto particolare rilievo per aver inserito i problemi della psicoanalisi infantile in un contesto di ricerche sociologiche. Eriksson si formò a Vienna sotto la guida di Anna Freud ed August Aichhorn. Emigrato negli Stati Uniti nel 1933, ha svolto la sua attività di insegnamento e di ricerca in alcune delle più illustri università americane, come Harvard, Yale, Berkley ed il Massachusetts Institute of Technology. Molto nota è la sua rielaborazione dei processi di sviluppo individuale che, partendo da una matrice psicoanalitica classica, evolvono in direzione dell’analisi delle 8 fasi (ciascuna legata ad un tipo di conflitto bipolare) che caratterizzano l’intero ciclo di vita (Life-Span Developmental Psychology). Il passaggio allo stadio successivo avviene ogni volta che l’individuo, nell’interazione con la realtà esterna, riesce a superare una “crisi evolutiva” e attraverso questi stadi di sviluppo realizza l’integrità dell’Io. Le sue teorie hanno rappresentato un’importante tappa nell’espansione della teorizzazione psicoanalitica, nell’ottica del riconoscimento del dinamismo intrinseco che va dalla prima infanzia anche ai periodi di vita adulta e senile. Rifacendosi al linguaggio dell’embriologia, Erikson considera che ogni elemento della persona sia già presente prima che compaia il suo critico e decisivo tempo di emersione.
A partire dalle fasi di sviluppo psico-sessuale di Sigmund Freud, Erikson individua otto stadi di sviluppo psicosociale, ciascuna caratterizzata da una precisa crisi psicosociale:
Per il momento le elencheremo solamente in seguito verranno esaminate più dettagliatamente.
Prima Infanzia 0-1 anno (fase orale-respiratorio), fiducia/sfiducia;
Infanzia 1-3 anni (fase anale-uretrale), autonomia/vergogna e dubbio;
Età genitale 3-6 anni (fase infantile-genitale), iniziativa/senso di colpa;
Età scolare 6-12 anni (fase di “latenza”), industriosità/inferiorità;
Adolescenza 12-20 anni (pubertà), identità e contestazione/diffusione di identità;
Prima età adulta 20-40 anni (genitalità), intimità e solidarietà/isolamento;
Seconda età adulta 40-65 anni, generatività/stagnazione e auto-assorbimento;
Vecchiaia 65 in poi, integrità dell’Io/disperazione.
Pur essendo un cammino “a tappe”, il ciclo di vita viene inteso da Erikson come un continuum. Nello sviluppo è importante il concetto di crisi intesa in maniera positiva; è questa, infatti, la scelta effettuata per risolvere la problematica evolutiva. La persona quindi riemerge con un accresciuto senso di unità interiore: gli elementi negativi non vengono cancellati ma vengono ampiamente superati. Come detto anche sopra secondo l’autore dalla nascita ha inizio lo sviluppo psicologico del bambino, che porterà gradualmente alla formazione della sua individualità e della sua personalità. Si tratta di un processo graduale, che passa attraverso le diverse fasce di età e si esprime tramite una serie di cambiamenti, il cui manifestarsi è influenzato dallo sviluppo dei suoi processi cognitivi ed affettivi e dalle componenti ambientali e sociali. Leggendo i testi di Erikson egli ci tiene a sottolineare la matrice psicoanalitica dei suoi contributi. In questo senso centrale è stata la questione, molto spesso dibattuta in ambito psicoanalitico, della realtà psichica e della realtà autobiografica. Nel paragrafo che segue verrà approfondito questo tema.
La “REALTÀ ESTERNA” e la “REALTÁ PSICHICA” secondo E. Eriksson e S. Freud
La formulazione delle fasi dello sviluppo psicosociale di Erik Erikson partirono da una riflessione attenta alla questione della “ REALTÀ ESTERNA” in contrapposizione alla REALTÀ INTERNA” o “REALTA PSICHICA” tema questo molto sentito nello scenario psicoanalitico. Infatti uno dei temi centrali della psicoanalisi al tempo di Freud era la questione del transfert e delle fantasie primarie, in cui egli ribadisce la netta superiorità attribuita alla realtà psichica rispetto a quella biografica. A proposito di questo tema Freud in “Introduzione alla psicoanalisi” (pag. 171-172) del 1918 scrive:
“Vi ho annunciato che abbiamo ancora qualcosa di nuovo da scoprire; si tratta, in realtà, di una cosa sorprendente e sconcertante. Mediante l’analisi, come sapete, a partire dai sintomi, veniamo a conoscere le esperienze infantili alle quali è fissata la libido e a partire dalle quali essi vengono costruiti. La cosa sorprendente consiste nel fatto che non sempre queste scene infantili sono vere. Anzi, non lo sono nella maggioranza dei casi, e in casi singoli si trovano in opposizione diretta alla verità storica.[…] Se gli episodi infantili portati alla luce dall’analisi fossero sempre reali, avremmo la sensazione di muoverci su un terreno sicuro. Se fossero di regola falsati, se si rivelassero invenzioni, fantasie dell’ammalato, dovremmo abbandonare questo terreno malfermo e metterci in salvo altrove. Le cose, invece, non stanno né in un modo né nell’altro, bensì è dimostrabile che gli episodi infantili costruiti o ricordati nell’analisi alcune volte sono senza dubbio falsi, altre invece altrettanto sicuramente veri e, nella maggior parte dei casi, un misto di vero e di falso. I sintomi sono dunque, in un caso, la rappresentazione di episodi che hanno realmente avuto luogo e ai quali si può attribuire un influsso sulla fissazione della libido; in un altro, fantasie dell’ammalato, che naturalmente non sono per nulla adatte a svolgere un ruolo eziologico. In un tale contesto è arduo orientarsi. Un primo punto di riferimento può forse essere trovato in un’altra scoperta simile, e cioè che i singoli ricordi dell’infanzia, che gli uomini hanno in sé consciamente, da tempo immemorabile e prima di ogni analisi, possono ugualmente essere falsati o, quanto meno, possono mescolare ampiamente il vero con il falso.»
Raramente è difficile dimostrare la loro inesattezza; abbiamo così almeno l’assicurazione che non sia l’analisi ad essere responsabile di questa nostra inaspettata delusione, bensì in qualche modo gli ammalati. Il fatto che il malato si sia creato tali fantasie ha per la sua nevrosi un’importanza di poco inferiore che se egli avesse realmente vissuto ciò che esse contengono.
Queste fantasie possiedono una realtà psichica in contrapposizione a quella materiale, e noi giungiamo a poco a poco a capire che nel mondo delle nevrosi la realtà psichica è quella determinante.”
Da queste ultime righe si evidenzia come la tendenza della psicoanalisi era sempre stata quella di dare molta importanza alle fantasie interne piuttosto che: alla realtà esterna, alle vicende di vita e all’ambiente sociale in cui viveva un individuo. Erikson ad un certo punto vuole ribaltare questo paradigma e cerca di esplorare il mondo esterno e la relazione che necessariamente si stabilisce con la dimensione profonda della psiche, mantenendo comunque in piedi il modello psicoanalitico. Nel testo “I cicli della vita” dell’ 1982 Eriksono riprende il tema della “ realtà esterna” come base per spiegare la sua tesi dello sviluppo psicosociale dell’individuo e propone di ridiscutere la questione del “ mondo sociale esterno” in contrapposizione con “al mondo interno” con i successori di Sigmund, Anna Freud e Hartmann, e altri.. In questo modo Erikson vuole mettere in evidenza gli sforzi intellettuali che gli hanno permesso di dare alla luce le sue idee. Egli sottolinea che tutto ciò che appartiene al mondo dell’inconscio durante le fasi dello sviluppo psicosessuale viene poi a manifestarsi necessariamente nel comportamento, nei momenti di crisi e nelle interazioni relazionali. Erikson sottolinea che la psicoanalisi si era molto interrogata sul ruolo della “realtà esterna”, questo perché ciò su cui spesso ci si soffermava era relativa alla “realtà psichica” , ossia al modo soggettivo di un individuo di vivere, per esempio, dei movimenti di transfert. Eppure evidenzia Eriksson che nella crescita ci sono dei momenti critici costanti legati alle varie fasi dello sviluppo psicosessuale (così come le ha descritte Sigmund Freud) che meritano una più attenta analisi in relazione agli aspetti sociali. È importante sottolineare che Erikson fu uno dei maggiori psicanalisti americani e che in una prima fase della vita si formò a Vienna sotto la guida di Anna Freud. È da questo iniziale trenning che parte il suo interesse sull’età infantile per estendersi poi all’intero ciclo di vita. Non è un caso che l’autore mette in evidenza che il testo “ I cicli della vita” nasce dalla collaborazione con Anna Freud per la stesura di un saggio su richiesta della “National Institute of Mental Health” che fu poi pubblicato a cura di S. I. Greenspan e G. H. Pollock nel 1980. Eriksson sottolineò che il primo contributo lo scrisse Anna Freud ed che occupò solo dieci pagine, ma di estrema chiarezza, lui invece ne dovette scrivere cinquanta per poter, allo stesso modo essere, eloquente. In quel contesto l’introduzione di A. Freud s’intitolò « Child Analysis as the Study of Mental Growth (Normal and Abnormal) », e prese avviò dal lavoro di psicoanalisi infantile condotto a Vienna, a Berlino e a Londra. Una sezione speciale dell’articolo riassunse la funzione svolta dalle “Developmental Lines”, e cioè da un modello concettuale predisposto da A. Freud stessa e dal personale della Hampstead Clinic (A. Freud, 1953). Afferma Eriksson che queste «lines » gli furono di grande ispirazione e in esse ritrovò molte affinità con le teorie che già da diversi decenni stava promuovendo. Infatti l’autore sottolinea che Anna Freud con i suoi collaboratori portavano avanti diverse tesi che passavano dal concetto di immaturità infantile fino alle più attendibili (ma ancora controverse) categorie ipotizzate per il comportamento dell’« adulto medio ». Alcuni esempi che mostravano il contributo della Freud andavano nella direzione di analizzare dalla «dipendenza libidica alla fiducia di sé », dall’egocentrismo alle relazioni coi coetanei », « dal gioco al lavoro ». Dai contenuti di questo lavoro si può intuitivamente osservare la matrice comune con le fasi dello sviluppo psicosociale di Erikson. Afferma l’autore che dal punto di vista concettuale questo modello evolutivo di Anna Freud è certamente fondato su due presupposti teorici psicoanalitici: quello dello sviluppo psicosessuale e quello della psicologia dell’Io. Questa modalità osservativa di stampo psicoanalitico si mostra particolarmente vicina agli interessi di Erikson.
Infatti a proposito di quelle comuni pubblicazioni egli scrive:
“Il mio contributo (1980 a) si è proposto di delineare gli « elementi » di una teoria psicoanalitica dello sviluppo psicosociale:
ho voluto cioè per prima cosa dare evidenza della graduale inclusione, nel pensiero psicoanalitico, di quello che una volta si chiamava il «mondo esterno» o la « realtà esterna », e l’ho fatto partendo dalle mie ultime esperienze viennesi di training fino ai primi anni passati in questo Paese. E giacché ho voluto dare particolare rilievo al carattere complementare degli approcci psicosessuale e psicosociale e al loro stretto rapporto con il concetto di Io, sono andato avanti nel lavoro passando in rassegna i corrispondenti stadi dell’intero ciclo vitale.
Nel prossimo paragrafo affronteremo il cammino autobiografico che portò Erikson allo sviluppo delle sue idee.
Quali furono le esperienze e le riflessioni che portarono Erikson verso la formulazione delle sue teorie?
Eriksson mette in evidenza che la sua tesi sullo sviluppo psicosociale nasce dallo sforzo di evidenziare cosa comporta a livello sociale l’attraversamento delle varie fasi dello sviluppo psicosessuale di Freud. Cosa ogni fase lascia nell’individuo e in funzione di questi momenti importanti nella vita quali sono le acquisizioni o le ripercussioni a livello sociale. Come già accennato precedentemente questo modo di vedere rimette in campo la questione della realtà esterna e come questa partecipa al divenire di un individuo. Nel testo “i cicli della vita” del 1982 Ericsson inserisce un paragrafo molto interessante in cui racconta passo per passo gli eventi storici e le riflessioni che lo portarono gradualmente a formulare le sue idee. Sarebbe un sacrilegio riassumere queste interessantissime pagine in cui Eriksson apre le porte della sua vita personale e degli scambi professionali con le più illustri menti dello scenario psicoanalitico di allora. Perciò inserirò di seguito le parole che Erikson usò prese dal paragrafo intitolato “Introduzione: Nota storica su “La realtà esterna” del testo “I cicli della vita”
In questo paragrafo Eriksson non si limita a spiegare la questione della realtà esterna ma amplia il discorso a proposito di come la realtà esterna sia stata la sua fonte di ispirazione per la formulazione delle sue tesi più conosciute.
In questo paragrafo Erikson scrive:
“Nel contesto della teoria psicoanalitica il termine «psicosociale » (e il concetto ch’esso sottende) è senza dubbio da considerare complementare alla più generale teoria sulla psicosessualità. Per delineare gli inizi di questa complementarità debbo risalire agli anni passati a Vienna durante le mie prime esperienze di training — che sono poi gli anni che vedevano nascere e prendere forma una psicologia dell’io — e tracciare brevemente quelli che furono i nuovi concetti che si andavano affermando nel considerare il rapporto dell’io con l’ambiente sociale. Anche se le opere fondamentali riguardo a questo argomento — The Ego and the Mechanisms oj Defence di A. Freud 1, e Ego Psvchology and the Problem ofAdaptation di H. Hartmann — apparvero solo e rispettivamente nel 1936 e nel 1939, in realtà le osservazioni contenute in questi lavori e il senso delle conclusioni a cui portavano facevano già parte del dibattito scientifico negli anni che precedettero il mio training e la mia emigrazione negli Stati Uniti (1933). L’originaria posizione di Freud fu certamente centrata sul concetto di impulso e quelli della mia generazione che si sono formati in Europa ricorderanno bene come il più importante dei termini appresi, Trieb, nel suo uso tedesco è ricco di connotazioni filosofiche la cui forza può essere positiva e nobilitante, come negativa e dissolutrice: ebbene, questa forza (nel bene e nel male) ha perduto ogni connotazione quando Trieb è stato tradotto in «istinto » o « impulso ». Die suessen Triebe, « i dolci impulsi » poteva scrivere il poeta tedesco, mentre il più prosaico linguaggio degli psicologi poteva parlare solo della necessità di trovare < forze di ugual dignità> (Jones, 1933) in ogni lavoro che fosse degno del nome di scienza, le stesse forze già individuate e quantificate dalle scienze naturali. Ma se Freud insisteva nel dire che « tutte le nostre idee in psicologia sono provvisorie e saranno un giorno fondate su una infrastruttura organica» (1914), egli fu anche esplicito nel dichiarare che preferiva aspettare prima di arrivare ad una concreta e più attendibile verifica sperimentale sull’ancora mitica presenza di una energia istintuale. Si capì allora com’egli si opponesse ai tentativi «materialistici » di Reich tesi a ricercare quantificabili tracce di libido nelle risposte di alcune parti del corpo.
L’opera di Freud ebbe inizio nel secolo della ricerca darwiniana sull’origine evoluzionistica delle specie, e questa nuova prospettiva impose alla specie umana, così orgogliosa della propria coscienza e della statura morale a cui era pervenuta in virtù della propria matura civilizzazione, di accettare la scoperta delle proprie radici nella sua ancestrale animailtà, nella preistoria dei suoi primordi, e negli stadi infantili dell’ontogenesi. Tutto questo era in qualche modo implicito nella terminologia dell’energia istintuale, una terminologia che nel corso degli anni aveva ‘finito col portare ad un ritualistico convincimento della sua realtà piuttosto che all’esigenza, seppure sperata, di trovarne una dimostrazione effettivamente scientifica. Nel suo tempo, però, l’idea di una forza energetica aprì la strada ad intuizioni non ancora immaginate ma suscettibili di esserlo. Ma lo scopo di fissare un punto fermo su questa energia istintuale fu (come lo ha drammaticamente dimostrato ancora una volta la recente pubblicazione della corrispondenza tra Freud e Jung) la convinzione freudiana dell’assoluta e primaria necessità di studiare a fondo quell’inconscio e istintivo nucleo dell’uomo che Freud chiamò « l’es» (cioè qualcosa di molto simile ad una profonda realtà interna) e di non perdere nessuna occasione per combattere la tenace riluttanza della specie umana a voler penetrare nella sua natura « più bassa », nonché la ricorrente tendenza a sminuire il senso di tali penetrazioni attraverso la loro riduzione ad eventi mitici di «più elevata » natura. Non meraviglia, allora, come di fronte alla necessità di esplorare il calderone della nostra più intima essenza, la realtà sociale occupasse all’inizio una sorta di posizione extra-territoriale che è stata spesso indicata come « mondo esterno » o «realtà esterna ». In questo modo il nostro orgoglioso io, chiamato da Freud una « creatura di frontiera », « si pone a servizio di tre padroni ed è di conseguenza minacciato da tre pericoli:
dal mondo esterno, dalla carica libidica dell’es e dalla rigidità del super-io » (S. Freud, 1923).
Quando furono presi in considerazione per la prima volta i rapporti dell’io coi gruppi sociali, Freud (1921) si rifece agli autori del suo tempo (Le Bon e MacDougall, ad es.) che si erano occupati di formazioni sociali « artificiali », cioè di fenomeni di folla, di massa, quelli che Freud chiamava gruppi « primari » e « primitivi ».
Egli mise l’accento sul «crescente inserimento dell’individuo nei gruppi di persone che avevano acquisito le caratteristiche di un gruppo psicologico» (il corsivo è mio) e, profeticamente anticipò sul modo come tali gruppi « consentono all’uomo di liberarsi dalla repressione dei suoi impulsi inconsci ». A quel tempo Freud non si pose il problema di fondo su come l’individuo avesse acquisito quello «di cui disponeva al di fuori del gruppo primitivo », e cioè « il senso della propria continuità, la coscienza di sé, le sue tradizioni e costumi, la peculiarità della sua posizione e delle sue funzioni ». Lo scopo principale che Freud si era prefisso nell’analizzare dei gruppi « artificiali » (una comunità religiosa o militare) era infatti quello di dimostrare che questi erano tenuti insieme da « impulsi erotici » che avevano subito uno « spostamento» rispetto al loro fine naturale (biologico) per rivolgersi a rapporti di tipo sociale, « sebbene essi operino con la stessa energia anche in questa nuova forma ». Quest’ultima ipotesi sarà per noi di particolare interesse nel contesto dello sviluppo psicosociale: come si spiega il fatto che « la carica erotica può passare… da fini sessuali a fini sociali» senza perdere nulla della sua energia? Anna Freud, sintetizzando il ruolo che assumono le misure difensive dell’io, si rifà ancora una volta alla nota presenza di forze sociali rivolte al « mondo esterno »: « L’io esce vittorioso quando le sue misure difensive lo rendono capace di ridurre l’insorgenza dell’ansia e, così facendo, di trasformare le cariche istintuali, che possono assicurare anche in circostanze difficili un minimo di gratificazione, attraverso lo stabilirsi di relazioni il più possibile armoniche tra l’es, il super-io e le forze del mondo esterno » (A. Freud, 1936). Nel suo ultimo lavoro essa riprende questo concetto con la formulazione delle Developmental lines (Linee evolutive) che « momento per momento segnano la graduale emancipazione dalla dipendenza, dall’irrazionale, dall’es e dagli atteggiamenti imposti dal rapporto con gli oggetti determinando una crescente padronanza dell’io nei riguardi della realtà sia interna che esterna» (A. Freud, 1965). Quando però ci si chiede « cos’è che durante lo sviluppo induce alla scelta di “linee” individuali », Anna Freud è dell’idea che « si debba tener conto delle accidentali influenze dell’ambiente. Nelle analisi condotte su ragazzi già grandi e nelle ricostruzioni che ci vengono da analisi compiute su adulti, abbiamo visto come queste influenze dipendessero dalla personalità dei genitori, dai loro ideali e comportamenti di vita, dall’atmosfera familiare, e dall’impatto culturale considerato nel suo insieme ». Ciò che resta da chiarire è il carattere più o meno «accidentale » di queste influenze ambientali.
Hartmann, a sua volta, va oltre e formula l’ipotesi che l’io umano sia qualcosa di più di una forza evolutiva di difesa contro l’es; esso disporrebbe di proprie, indipendenti e autonome origini:
chiamò infatti « gli apparati della primaria autonomia dell’io » alcune classiche funzioni della mente umana, come la motilità, la percezione e la memoria. Hartmann sostenne anche che tutte queste capacità di sviluppo sono già predisposte in senso adattivo con ciò che chiama « un comune ambiente medio ». Come ha scritto Rapaport: « servendosi di questi concetti, egli (Hartmann) pose le basi concettuali per una teoria psicoanalitica dell’adattamento, e delineò una prima, completa teoria sui rapporti con la realtà relativa ad una psicologia dell’io» (Rapaport in Erikson, 1959). Ma — aggiunge Rapaport — « …egli non formulò una specifica e differenziata teoria psicosociale ». In realtà, un « comune ambiente medio» sembrerebbe riferirsi solo a quel minimo di condizioni che — come saremmo tentati di dire — possono rendere possibile la sola sopravvivenza senza tener conto della varietà e complessità della vita sociale condizioni, queste, che sono alla base delle situazioni adattive come di quelle conflittuali dell’individuo e della comunità. In effetti anche gli scritti di Hartmann continuano ad utilizzare espressioni come « agire nei riguardi della realtà» (1947), « azione faccia-a-faccia con la realtà » (1947) o «agire sul mondo esterno » (1956), tanto per citare alcune delle più brevi e ricorrenti affermazioni, come se nel campo dello sviluppo si potessero tracciare delle linee una volta per tutte. L’approccio meccanicistico e fisicalistico della teoria psicoanalitica e il persistente riferimento alla « realtà esterna» mi lasciarono perplesso fin dalle mie prime esperienze di pratica analitica, e questa perplessità l’avvertivo soprattutto nel clima in cui venivano condotti i seminari clinici (il « Kinderseminar» di A. Freud, in particolare) i quali erano in così stretto e vivo rapporto coi problemi sia individuali che sociali da risultare animati da uno spirito che caratterizzava nel migliore dei modi la natura della pratica psicoanalitica. Freud scrisse una volta a Romain Rolland… « i nostri istinti innati e il mondo che ci circonda sono quello che sono, e io posso solo constatare che per la sopravvivenza della razza umana l’amore non è meno importante di quanto lo siano altre cose come la tecnologia» (1926). Effettivamente, noi allievi, potevamo davvero vivere l’esperienza delle discussioni cliniche come una moderna forma di caritas e prendere coscienza del fatto che in origine tutti gli esseri umani sono esposti agli stessi conflitti, e che la « tecnica »psicoanalitica impone allo psicoanalista di penetrare dentro questi conflitti per poterli poi utilmente « trasferire» da una situazione di vita a una situazione terapeutica. Sono questi, in ogni caso, i concetti e le parole che vorrei usare oggi per caratterizzare il senso del nuovo spirito comunitario ch’io colsi negli anni della mia formazione. Ecco perché la discussione dei casi, nel suo aspetto estensivo e intensivo, sembrava essere in evidente contrasto con la tradizione terminologica che doveva fare da struttura al discorso teoretico. Il linguaggio clinico e quello teoretico sembravano esprimere due diversi atteggiamenti verso le motivazioni umane anche se poi si dimostravano complementari l’uno dell’altro nel vissuto della nostra esperienza formativa. Negli anni che seguirono, quando il trattamento degli adulti ci consentì di formulare alcuni più precisi e stabili sottostadi della fanciullezza e di avere di conseguenza dei punti di riferimento capaci di dare consistenza ai primi schemi per lo studio dell’intero ciclo vitale, la diretta osservazione e il trattamento psicoanalitico dei bambini si dimostrarono di fondamentale importanza. Nella discussione di questo tipo di lavoro il carattere dinamico della concezione psicoanalitica si manifestò in tutta la sua chiarezza giacché i bambini offrivano, non solo sorprendenti verifiche della sintomatologia descritta dai parametri psicopatologici della psicoanalisi, ma lo facevano superando spesso tutte le nostre previsioni attraverso la spontaneità delle loro manifestazioni comunicative e ludiche. Così, essi resero evidente, insieme all’intensità delle loro situazioni conflittuali, anche la loro creativa e ricca capacità di esperienza e di sintesi. E fu proprio durante i seminari dedicati ai piccoli pazienti e condotti da psicoanalisti particolarmente preparati in problemi « rieducativi» che il riduttivo linguaggio della teoria scientista restava nello sfondo, mentre il primo piano era rappresentato dai tanti dettagli che davano evidenza di un reciproco coinvolgimento tra il bambino e alcune figure significative della sua vita. In questi casi, più che l’aspetto «economico,> relativo ad impulsi interni e ad interne difese di una sola persona, veniva fuori una ecologia fatta ‘di reciproche attivazioni all’interno di un nucleo comunitario, com’è il caso ‘della famiglia, che si dimostrò un fondamentale oggetto di studio. Questa realtà risultò particolarmente chiara nelle osservazioni condotte da due eminenti studiosi del comportamento giovanile, Siegfred Bernfeld e August Aichhorn: il primo lo ricordo come un grande oratore, il secondo come il più convincente e concreto conoscitore dei problemi riguardanti la ‘delinquenza minorile.
Oggi, non ho alcuna esitazione nel riconoscere che la differenza fondamentale tra l’approccio teoretico e quello clinico che ha caratterizzato la nostra formazione somiglia molto a quella che si è verificata tra le preoccupazioni economiche per le fonti energetiche del secolo scorso e l’accento posto, in questo secolo, sui concetti di complementarità e di relatività. Senza quasi rendermene conto, intitolai, alcuni anni dopo, il primo capitolo del mio primo libro Relevance and Relativity in Case History (1951; 1963). Indipendentemente da quanto scrissi in quella circostanza e al di là delle analogie contenute in quelle considerazioni, mi sono convinto del fatto che l’atteggiamento clinico della psicoanalisi altro non è se non un’esperienza basata sulla conoscenza di molteplici relatività, quelle stesse che spero risulteranno chiare in questo saggio. C’era poi un terzo elemento nell’esperienza formativa compiuta a Vienna che, secondo me, non ‘dev’essere subordinato né all’approccio clinico, né a quello teoretico: mi riferisco al piacere (che non posso che definire estetico) di un’aperta attenzione d’insieme al ricco gioco delle forme e dei significati, un’attenzione della quale l’Interpretazione dei sogni di Freud è stato il primo e ‘più significativo dei modelli. Da allora è stato infatti facile trasferire quel modello all’osservazione del comportamento ludico infantile e dedicare altrettanta attenzione a ciò che tale comportamento negava o alterava, nonché a quella (spesso divertente) capacità di offrire delle manifeste espressioni senza le quali sarebbe stato difficile cogliere quanto c’era di simbolico e di ritualizzato negli schemi comportamentali, e senza le quali uno come me, formato più alla comunicazione visiva che a quella verbale, non avrebbe potuto riconoscere come « naturale» l’accesso a quei risultati di così schiacciante evidenza (a dire il vero, una delle mie prime comunicazioni presentate alla Società psicoanalitica di Vienna verteva sui disegni dei libri ‘per l’infanzia (1931) e la prima comunicazione presentata in questo Paese è stata Configurations in Play (1937)). Mi è parso utile ritornare sull’argomento perché questi elementi rimangono a mio avviso fondamentali per la scienza-arte della psicoanalisi e non possono essere sostituiti, a scopo di «verifica », da indagini sperimentali o statistiche per quanto suggestive ed utili possano essere nei fini che si propongono di raggiungere.
Ma è tempo ch’io ricordi un fatto ‘dominante, e cioè che il periodo storico nel quale imparammo a condurre osservazioni su tali elementi della vita interiore era quello che stava per diventare uno dei periodi più oscuri della storia; la contrapposizione ideologica tra mondo « interno » e mondo « esterno » avrebbe infatti avuto più profonde connotazioni nella minacciosa spaccatura tra l’ispirazione individualistica radicata nella civiltà Giudeo-Cristiana e la propensione totalitaria dello stato razzista. Questo fatto stava per minacciare la vita di alcuni di quelli che erano allora impegnati negli studi fin qui descritti. I loro sforzi, però (come dimostrano le date delle opere citate), furono tenacemente raddoppiati come se ora più che mai fosse disperatamente necessaria una metodica dedizione allo spirito illuminante e salutare d quegli stessi studi. Nello stesso periodo da questa parte dell’Atlantico anche dei giovani psicoanalisti come me presero coscienza del fatto che le caute ma ben definite indicazioni verso un approccio di tipo sociale, emerse dagli sviluppi di una psicologia dell’io all’interno della scuola viennese, dovevano essere portate avanti ed estese giacché eravamo ormai impegnati nel lavoro interdisciplinare e potevamo dividere lo spirito pionieristico dei nuovi istituti di psicoanalisi, come delle nuove «scuole ». A Harvard esisteva già un disponibile ambiente medico reso ancor più idoneo da un aggiornato servizio sociale psichiatrico. In quella stessa sede anche Henry A. Murray stava studiando storie di vita più che storie individuali, mentre nei numerosi incontri interdisciplinari (sotto l’autorevole influenza di Lawrence K. Frank, Margaret Mead ed altri) le porte che dividevano i Dipartimenti di studi medici da quelli di studi sociali erano aperte ad un continuo scambio di esperienze che si dimostrarono ben presto complementari.
Avvenne così che proprio nell’anno in cui uscì a Vienna The Ego and the Mechanisms of Defence (A. Freud, 1936), ebbi il privilegio di accompagnare l’antropologoScuddle Mekeel nella Riserva degli indiani Sioux a Pine R’idge, nel Sud Dakota, e di condurre delle osservazioni che si dimostrarono poi fondamentali per una teoria psicosociale su base psicoanalitica. Una delle più sorprendenti indicazioni emerse fin dalle prime conversazioni con gli indiani d’America fu la verifica di una convergenza tra la spiegazione data dagli indiani circa i loro antichi metodi ‘di allevamento dei figli e il principio psicoanalitico secondo il quale è opportuno attribuire ai risultati ottenuti il carattere della rilevanza insieme a quello dell’interdipendenza.
Arrivammo così alla conclusione che presso questi gruppi la formazione è basata su un metodo attraverso il quale ‘alcune fondamentali modalità organizzative dell’esperienza -l’èthos [1] del gruppo, come poi lo chiamammo- vengono trasmesse al bambino dalle precoci esperienze di contatto corporeo e, da queste, agli esordi formativi del suo io.
La ricostruzione in senso comparativo dei vecchi metodi di allevamento della prole di questa tribù ‘di cacciatori dei Great Piains e, successivamente, di una tribù di pescatori della California, getta molta luce su quello che Spitz chiamò il «dialogo » tra la disponibilità evolutiva del bambino e lo schema ‘di cure materne offerto al bambino stesso da una comunità: « …la fonte e l’origine di un adattamento specie-specifico» (Spitz, 1963, p. 174). Imparammo anche a riconoscere l’importanza dello stile educativo di allevamento perché ‘rivolto non solo all’interno dell’economia del ciclo di vita individuale, ma anche all’equilibrio ecologico di una comunità sottoposta a mutevoli condizioni storiche e tecnologiche. Quell’esperienza non sembrò rilevante allora, ma costituì una sorta di sinistro incoraggiamento per quanto dovemmo imparare poi nell’olocausto vissuto durante la seconda guerra mondiale, e servì, se non altro, ad indicarci la possibilità di un futuro chiarimento attraverso una nuova interpretazione, in termini di psicologia politica, delle più negative e distruttive tendenze di quelli che sembravano essere i più maturi e civilizzati rappresentanti della specie umana. E’ compito ‘di questo saggio quello di chiarire la, teoria psicosociale che ne ebbe sviluppo, specie in riferimento alle sue origini e al valore ch’essa poteva avere per l’intera teoria psicoanalitica. E, tanto per cominciare coi primi interrogativi, qual è la funzione della pregenitalità — questa grande distributrice di energia libidica — nella sana come nella disturbata ecologia ‘del ciclo di vita individuale e in quello delle generazioni? La pregenitalità esiste solo per la genitalità e la sintesi dell’io solo per l’individuo? Quanto verrà dopo è basato su una ricca varietà di esperienze cliniche e « applicate » come sono riportate nei miei lavori. Come ho già avuto modo di dire, devo ora cercare di ripeterle senza che assumano il tono di un resoconto narrativo. D’altra parte, avendo già trattato di quasi tutti questi problemi in precedenti pubblicazioni, dovrò necessariamente ricorrere a delle ‘parafrasi e, qua e là, citare il mio nome.”
Termina così l’introduzione del testo “I cicli della vita” di Erickson in cui lui riprenderà le questioni della pregenitalità e gli effetti di questa sull’intero arco di vita sia dal punto di vista individuale che sociale, tenendo anche in considerazione le ripercussioni storiche.
In questo interessantissimo testo l’autore mostra come dai primi scritti sullo sviluppo psicosessuale di Freud questo tema è stato centrale per l’evoluzione della psicologia infantile. I contributi di A. Freud, Hartmann, Rapaport, Spitz e tanti altri sono stati l’humus vivente per le formulazioni delle tesi di Eriksson e di tanti altri autori cheb hanno potuto fare tesoro delle loro osservazioni.
Bibliografia
Erikson E. (1982). I cicli di vita. Armando editore
Eriksson E. (1963). Infanzia e società. Armando editore.
Freud, A. (1936). The Ego and the Mechanisms of Defence
Freud A. (1967) L’Io e meccanismi di difesa. Martinelli, Firenze.
Hartmann H. (1966) psicologia dell’io è problema dell’adattamento. Boringhieri, Torino.
Nota 3 Lettere tra Freud e Jung: 1906-1913, Boringhicrl, Torlim 1914 (N.d.T.). (pqg 16-17)
Libri scritti di Erik Erikson
Introspezione e responsabilità (Insight and Responsibility)
Saggi sulle introspezioni etiche dell’introspezione psicoanalitica
Il giovane Lutero (Young Man Luther. A Study in Psychoanalysis and History) (1958)
I giocattoli del bambino e le ragioni dell’adulto (Toys and Reasons)
Gioventù e crisi di identità (Identity: Youth and Crisis) (1968)
La verità di Gandhi: sulle origini della nonviolenza militante (Gandhi’s Truth: On the Origin of Militant Nonviolence) (1969)
L’adulto. Una prospettiva interculturale (Adulthood) (1978)
Coinvolgimenti vitali nella terza età (Vital Involvement in Old Age) (1986)
[1] Anche questo termine — di cui l’A. fa largo uso — non viene tradotto, ma il suo significato riassume in sé, com’è noto, quelli di «carattere proprio «costume », «norma di vita », « comportamento pratico dell’uomo e delle società umane », ovvero degli « istituti attraverso i quali questo stesso comportamento si manifesta dal punto di vista storico ». Esso va dunque «letto» secondo queste accezioni(N.d,T.).