Il Falso sé di D. Winnicott e la scoperta del proprio sé più autentico, il vero sé.
Ci sono individui che soffrono emotivamente nonostante a livello apparente sembra che non abbiano grandi problemi e nulla di cui doversi realmente lamentare. Eppure l’emergere di stati di tensione, ansia, somatizzazioni, depressione devono farci pensare che qualcosa non funziona.
Bergeret ( un famoso psicoanalista) in questi casi parla di “Normalità Patologica” cioè di casi in cui gli individui mostrano di vivere una vita normale, con un lavoro e una famiglia ma a livello emotivo il loro stato interno è completamente pervaso da uno stato di continua angoscia. Egli sostiene che queste persone per mantenere un’apparente normalità sono in un continuo stato di controllo per rispondere alle aspettative degli altri; a lungo andare questo finisce per produrre malesseri e sintomi.
Una condizione del genere finisce per allontanare la persona dalla sua più intima natura, alienarla e producendo vari stati di malesseri e insoddisfazioni.
Winnicott ha sviluppato il concetto del “falso sé” per spiegare questo meccanismo e perché si forma.
Questa modalità poi può diventare così pervasiva da organizzare l’intera personalità. Infatti lui sviluppo questo concetto dall’osservazione di alcuni suoi pazienti che definì caratterizzate da una “personalità Falso sé”.
Questi suoi pazienti provocavano in primo acchito in Winnicott ( controtransfert) una sensazione di inautenticità, l’emotività poi non accompagnava in modo convincente i discorsi, sembrava che qualcosa non funzionasse.
Poi nell’esplorazione del loro modo di essere mostravano difficoltà nel rintracciare le proprie inclinazioni personali, tendenzialmente si mostravano dipendenti e preoccupati della possibilità di perdere la vicinanza degli altri significativi.
Winnicott che lavorò con Melanie Klein si interessò allo sviluppo di queste personalità osservando il bambino in relazione alle cure materne.
Sviluppò allora la sua ipotesi circa l’eziopatogenesi di questo fenomeno affermando che si tratta di un meccanismo difensivo adattativo in cui la falsificazione può assumere diverso gradi di gravità.
Secondo Winnicott in casi gravi Il falso sé può descrive una modalità patologica di sviluppo dell’identità. Questa si forma nei primi stadi dello sviluppo infantile, quando il bambino non trova nella madre il rispecchiamento dei suoi bisogni e desideri
L’autore ha lavorato a lungo come pediatra ed è proprio da questa esperienza professionale che nascono molte delle sue interessanti intuizioni. In particolare l’osservazione delle interazioni madre-bambino gli ha permesso di elaborare una teoria in grado di spiegare come l’atteggiamento materno possa influire sulla costruzione identitaria del figlio.
Secondo l’autore una madre sufficientemente buona, ovvero in grado di identificare e rispondere in modo creativo e flessibile ai bisogni del bambino, rappresenta la risorsa essenziale per permettergli di sperimentare la cosiddetta onnipotenza soggettiva: la sensazione di poter creare ogni cosa, di poter manipolare l’ambiente e la stessa madre secondo le proprie esigenze. Si tratta di un primo stadio evolutivo basato sull’egocentrismo del piccolo, nel quale questo può esprimere liberamente sé stesso. In questa fase avviene la costruzione del Vero Sé che contiene il nucleo più intimo delle aspettative, dei desideri e dei bisogni del bambino. Ciò è reso possibile grazie al sostegno di una funzione chiamata holding materna: che agisce come contenitore delle angosce del figlio avvicinandosi e allontanandosi da lui secondo i bisogni di quest’ultimo.
Attraverso il gioco è possibile individuare la natura più intima di un bambino e permettergli di sperimentarla, ma Winnicott spiega che questo vale anche per l’adulto. Infatti dice:
“È nel gioco, e soltanto mentre gioca, che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso della sua intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé.”
-Donald Winnicott
Ma come si sviluppa il falso sé?
Winnicott asserisce che crescendo il bambino abbandona questa visione egocentrica, sostituendola con una visione più ampia che contempla lo spazio oggettivo condiviso, dove la madre e gli oggetti esterni esistono indipendentemente dalla sua volontà. Il passaggio a questa seconda fase avviene in modo graduale, mediante l’utilizzo del cosiddetto oggetto transizionale: un oggetto esterno che può essere identificato con una bambola, un pelouche o altro e rappresenta il primo oggetto assimilato dal piccolo come “non-me”. L’oggetto transizionale sostiene il bambino alleviando lo shock che deriverebbe dal passaggio obbligato da una visione egocentrica alla rappresentazione della realtà condivisa e favorisce il processo di separazione e individuazione, necessario per la formazione di una personalità strutturata e capace di agire efficacemente nel proprio ambiente.
Nelle prime fasi di vita si crea uno stato simbiotico che unisce madre e bambino, ma, nel corso del tempo, la fusione madre-bambino diminuisce gradualmente in modo da permettere al bambino di scoprire che esiste un mondo esterno. Questo progressivo cambiamento viene traghetto da un oggetto ponte che tranquillizza, ossia l’oggetto transizionale, cioè un oggetto, come una coperta, un peluche o un gioco, che accompagnano il bambino nel distacco, offrendo un’alternativa intermedia tra la presenza costante della madre e la sua totale assenza. Il distacco implica il riconoscimento dei confini tra il Sé e l’altro, processo nel quale il bambino necessita della conferma dei genitori, che possano rimandargli la sua esistenza in quanto singolo e supportarlo nello sviluppo. Nell’esplorazione del mondo, che l’oggetto transizionale assumerà la funzione di “oggetto constante interno” che rassicura al di là della presenza fisica e permetterà la costruzione di un senso del Sé stabile.
La scoperta dell’esistenza di uno spazio condiviso costringe quindi il bambino ad abbandonare l’egocentrismo infantile e a modificare la propria esperienza rispetto agli oggetti esterni. Questo secondo stadio dello sviluppo individuale puó favorire la costruzione del Falso Sé, quando l’adulto non riesce a sintonizzarsi con i bisogni del bambino.
Il Falso Sé, a questo punto, è la conseguenza dell’adattamento dell’individuo all’ambiente relazionale: un adattamento che richiede di mettere da parte le componenti autentiche della persona per rispondere adeguandosi alle richieste del contesto. Il Falso Sé rappresenta quindi una componente superficiale della struttura della personalità che presenta principalmente due funzioni: consentire una buona integrazione all’ambiente e difende il Vero Sé, nel quale sono rappresentate le aspirazioni più intime ma anche i bisogni più intimi di rispecchiamento non realizzati.
Ogni individuo dovrebbe giungere ad essere in grado di relazionarsi con l’ambiente circostante adattandosi ad esso, quindi giungendo a compromessi che in parte limitano il Vero Sé, senza tuttavia trascurare le aspirazioni e i bisogni alla base del proprio nucleo intimo. Ciò avviene se la funzione materna è stata in grado di garantire una buona holding.
Diversamente, una madre che non ha saputo rispondere adeguatamente ai bisogni del piccolo e gli ha impedito di sperimentare la libera espressione della propria onnipotenza soggettiva e non ha saputo favorire il passaggio graduale nelle fasi di sviluppo necessarie alla formazione della personalità del figlio.
Quest’ultimo impara quindi ad adattarsi ai bisogni della madre e a sviluppare la propria identità in base al Falso Sé.
Il prodotto finale sarà un adulto guidato dalla spinta del Falso Sé che mira al compiacimento dell’altro.
Nei casi più importanti la costruzione del Falso Sé può è molto prematura dominando l’intera esistenza della persona, sebbene nella maggior parte dei casi quest’ultima tenda a sperimentare una serie di effetti negativi, dalla tristezza all’apatia talvolta unite a veri e propri sintomi depressivi, che la portano ad attuare cambiamenti drastici in grado di far emergere i suoi veri bisogni personali.
In linea con il pensiero di altri psicanalisti, Winnicott sostiene che durante il primo anno di vita, la madre e il neonato costituiscono una singola unità. Non si può considerare il bebè come un’entità separata dalla madre. I due costituiscono un’unità psichica inscindibile.
Winnicott definisce la madre come il primo ambiente di cui un essere umano dispone. La base assoluta del suo successivo sviluppo
La madre è come uno specchio per il bambino. Il piccolo ha una visione di sé che corrisponde al modo in cui lo vede la madre. Impara a identificarsi con il genere umano attraverso la sua figura. A poco a poco, il bebè si distacca dalla madre e a lei non resta che adattarsi a questo cambiamento.
Il bambino inizierà a compiere gesti spontanei che fanno parte della sua individualità. Se la madre accoglie questi gesti, il bambino sentirà di essere reale. Se invece questi gesti vengono ignorati, il bambino sperimenta una sensazione di irrealtà.
Quando viene meno questa interazione fra madre e figlio, si verifica quello che Winnicott chiama “rottura della continuità esistenziale”. In parole povere, si tratta di una interruzione improvvisa del processo di sviluppo spontaneo del bambino. È in questo che risiede l’origine del false self o falso sé.
Winnicott sottolinea che in questo caso è come se il bambino diventasse “la madre di sé stesso”. Ciò significa che inizia a nascondere il suo vero Io per proteggersi. Inizia a mostrare solo quello che, per così dire, sua madre vuole vedere. Si trasforma in qualcuno che non è davvero.
Quando il bambino non si sente visto o compreso, sviluppa il Falso Sé come un modo per ottenere l’amore di cui ha bisogno e utilizza il Falso Sé come strategia per sopravvivere in un ambiente che sembra non accoglierlo, nascondendo il vero Sé.
Spesso ciò che ne scaturisce è un adattamento ai bisogni e alle aspettative dei genitori; a partire dall’esperienza passata, l’individuo avrà timore di essere rifiutato, respinto o punito. Il Falso Sé può essere quindi considerato come una risposta difensiva alle esperienze precoci in cui il vero Sé dell’individuo non è stato adeguatamente riconosciuto o accettato.
Il concetto di Falso Sé mette in evidenza la complessità dell’identità e dell’autenticità umana: se da un lato il Falso Sé può fornire un senso di sicurezza e protezione, dall’altro può anche creare una profonda disconnessione dal Sé autentico. La mancata espressione o costruzione del Sé può tradursi in un malessere psicologico che il bambino vivrà nell’immediato o in un periodo successivo. È comune in queste persone il senso di vuoto: non potendo abbandonarsi a sentimenti propri e non avendone fatto esperienza, la persona non conosce i suoi veri bisogni ed è alienata da sé stessa, sino a non riconoscere e diversificare i propri bisogni da quelli degli altri (Remigio, 2020).
Gli effetti del falso sé e i diversi gradi di profondità di falsificazione di se.
Esistono vari livelli di falsificazione del sé. Al livello più basso troviamo chi adotta un atteggiamento cortese e si adatta alle norme e agli ordini. All’estremo opposto troviamo la schizofrenia, uno stato mentale in cui la persona appare dissociata, fino ad arrivare al punto in cui, praticamente, il suo vero Io scompare.
Secondo Winnicott, in tutte le gravi patologie mentali c’è una componente legata al falso sé. In questi casi, la persona impiega tutte le sue energie nella creazione e nel mantenimento di questo falso sé, al fine di riuscire ad affrontare un mondo che viene percepito come imprevedibile e poco affidabile.
Winnicott afferma che buona parte degli sforzi di una persona con un falso sé molto forte sono orientati verso l’intellettualizzazione della realtà. Queste persone tendono a trasformare la realtà in un oggetto della ragione, e non dell’ emozione, degli affetti e degli atti creativi. Quando l’ intellettualizzazione va a buon fine, l’individuo è finalmente percepito come normale. Tuttavia, egli non vive la vita come se fosse sua, bensì la percepisce come qualcosa di estraneo.
Non riesce a sentirsi felice per i suoi successi né apprezzato, anche quando effettivamente lo è. Questo accade perché avverte che in realtà è il suo falso sé ad avere successo o a essere apprezzato. Questo segna una rottura con sé stesso e con il mondo. Il suo vero Io resta confinato, fantasticando e sperimentando un malessere che non riuscirà mai a comprendere davvero.
Il compito di una psicoterapia dovrebbe permettere il passaggio dal falso se a un sé più autentico. Anche in letteratura si parla spesso di questo viaggio dal Falso Sé al Vero Sé, tipico del genere letterario denominato Romanzo di formazione.
I romanzi di formazione raccontano l’evoluzione del personaggio principale che, affrontando le diverse sfide, giunge a maturare e a sviluppare qualità e virtù che prima non possedeva. Arriva e a conoscersi meglio. Alla fine del suo viaggio, in genere, il protagonista raggiunge (o si avvicina a) sé stesso.
Lo possiamo anche definire il viaggio dell’eroe di Jung.
In questo senso Jung sostiene che tutti gli esseri umani posseggono una parte autentica, un Vero Sé, il “Bambino Libero” all’interno di sé stessi, quel principio centrale e misterioso in cui sono custoditi i sogni, i desideri e le passioni autentiche di ogni individuo.
A un certo punto per una serie di meccanismi difensivi le persone si possono trovano lontane o addirittura tagliate fuori dalla propria individuale autenticità.
Un evento può scalfire questa modalità difensiva e non bastare a mantenere una propria economia psichica producendo i classici sintomi psicologici: somatizzazione, ansia, depressione, crisi di rabbia incontrollate, dipendenze comportamentali e da sostanze, atti di autolesionismo o di auto sabotaggio, e così via.
Un lavoro di esplorazione del proprio vero sé può essere fatta da soli o con l’aiuto di qualcuno.
Da soli, mediante la riflessione autonoma, l’investigazione interiore, lo studio, la scrittura di un diario, la lettura di libri.
Vi sono innumerevoli libri capaci di aiutarci a individuare le nostre più intime inclinazioni e gli ostacoli verso la realizzazione del nostro potenziale.
Talvolta il Falso Sé è troppo denso e gli autoinganni troppo radicati e si ha bisogno di essere aiutati da qualcuno per individuare gli schemi psicologici automatici di cui siamo profondamente inconsapevoli.
Tipicamente svolge questo ruolo lo psicoterapeuta, ma possono essere di stimolo e di sostegno anche altre persone: un insegnante, una guida spirituale, o persone “non titolate” ma comunque sufficientemente “sagge”, ossia che abbiano compiuto almeno una parte di questo viaggio.
Ma come conoscere il vero sé?
Intanto è plausibile che il Vero Sé si manifesta spontaneamente e naturalmente nel bambino prima che il mondo se ne accorga e lo riconosca come qualcosa di giusto o di sbagliato. Il Vero Sé ha a che vedere con le persone che si amano davvero, con gli amici con cui si è realmente in sintonia, con il partner che si sceglie con l’anima. Il Vero Sé si esprime nelle scelte lavorative basate sulla propria vocazione, nell’entusiasmo di vivere in un luogo e in una casa per cui si provano sentimenti di gratitudine. Il Vero Sé si manifesta nello stile di vita che ci soddisfa profondamente, che può essere intenso e frenetico per qualcuno o tranquillo per qualcun altro.
Il Vero Sé si esprime, se lasciato libero, in forme sempre diverse: è imprevedibile. Il Vero Sé evolve, muta e cambia col tempo. È autenticità in evoluzione.
Per trovare il proprio Vero Sé, occorre innanzitutto decidere coscientemente di volerlo fare.
Occorre decidere di voler destinare una parte delle proprie energie e del proprio tempo a riflettere seriamente e gioiosamente su di sé.