LA METAFORA DEL VIAGGIO NELL’INTERIORITA’
Si vuole ritenere che piangere è un segno di debolezza da una buona parte di persone. Eppure nell’Iliade e nell’Odissea innumerevoli sono le occasioni e le ragioni per cui Ulisse, Achille, Priamo, Ettore, Patroclo, Agamennone ecc… versano lacrime abbondanti, gridano e si disperano. Il loro pianto è, d’altra parte, così espressivo e pieno di sfumature che solo una rivisitazione attenta della situazione possono introdurci al dramma umano che si consuma nella loro anima. Si stima che Omero abbia scritto queste opere intorno al 700 Avanti Cristo, per cui molti sono i dubbi storici intorno a questi grandi poemi ma una cosa è certa ossia che ancora oggi sono attuali emozionando chi li legge. Gli eroi che vengono narrati e che compiono grandi gesta sono diversi dal modello degli eroi che vengono descritti nelle moderne narrazioni o nei film. Nei personaggi dell’Illiade e dell’Odiassea questi compiono grandi atti di coraggio ma di fronte alle loro disavventure spesso mostrano tutta la loro umanità disperandosi e sfogando il dolore. Confrontandoli con il modello degli eroi della moderna cinematografia vediamo che quest’ultimi difficilmente vengono filmati mentre si crogiolano nel pianto, di solito sono l’emblema dell’invulnerabilità.
Nell’Odissea, invece per esempio, Ulisse appare diverse volte nel pianto, e il più disperato è quello che apre l’opera. Il momento più alto del poema è proprio quello in cui Ulisse dopo aver perso tutto, e rischiato di morire, riesce a salvarsi sulla costa di una terra sconosciuta… e li… grazie al consenso degli idei trova ristoro presso i sovrani del luogo, il Popolo dei Feaci. Ma lui non sa se si trova presso amici o nemici perciò rimane anonimo. Sarà il suo pianto straziante che ad un certo punto durante un banchetto a spingere i suoi commensali a chiedergli cosa si muove in lui. Quello è il momento iniziale da cui poi partirà l’intero racconto di Ulisse alle prese con la sua Odissea. Dalle vicende che vive è possibile affermare che Ulisse come personaggio è la rappresentazione dell’eroe senza tempo, più simile alla persona comune, più simile a noi, che viviamo sventure cercando sempre di rialzarci. Di seguito un passo bellissimo.
Nell’Odissea cap. VI così Ulisse racconta il momento in cui naufrago trova terra
(Odusseias, Lib. VII, vv. 267/282)
“Per diciassette giorni navigai, traversando l’abisso,
Al diciottesimo apparvero i monti ombrosi
Dell’isola vostra: si rallegrò il mio cuore,
Infelice! Invece dovevo incontrare di nuovo gran pianto,
Che mi mandò Poseidone Enosictono,
Scagliandomi contro i venti, inceppò il mio cammino,
Sollevò un mare orrendo, mai l’onda lasciava
Di trascinarmi qua e là, gemente sopra la zattera.
Poi il turbine me la sconnesse; e io allora
Nuotando attraversai questo mare, fin che alla terra
Vostra m’avvicinarono il vento e l’acqua, spingendomi.
E mentre tentavo l’approdo, mi sbatté l’onda a riva,
Contro l’immane scogliera, in un luogo pauroso.
Strappato di là, ripresi a nuotare finché raggiunsi
Un fiume, e qui mi parve il luogo migliore,
Privo di rocce; ed era al riparo dal vento:
Là caddi svenuto”.
(Omero, Iliade, versione di Rosa Calzecchi Onesti, con prefazione di Fausto Codino, Einaudi 1950).
L’Odissea affronta temi universali come la lotta dell’uomo contro le avversità, la ricerca di identità, il desiderio di ritorno a casa e la complessità delle relazioni umane. Il viaggio di Ulisse rappresenta metaforicamente i viaggi interiori che tutti noi affrontiamo, rendendo l’opera rilevante anche ai giorni nostri. Ma scopriamo cosa al nostro eroe accadde dopo che approdò nelle terre dei Feaci.
ULISSE NAUFRAGO incontra NAUSICAA del popolo dei Feaci che lo soccorre
Ulisse, che provenendo dall’isola di Calipso, Ogigia, approdò sulle coste del Popolo dei Feaci (in greco Faiakes – in latino Faeaces).[1] Dal racconto di Omero, viene fuori evidente il particolarmente sacro e profondo senso dell’ospitalità dimostrato dalla principessa Nausicaa, figlia di Alcinoo, sovrano dei Feaci la quale fu la prima ad incontrare lo straniero e non ci pensò più di tanto a trattarlo, con tutti i riguardi e con un senso profondo di umanità, quale ospite. Successivamente il trattamento venne reiterato da re Alcinoo e dalla regina Arete, sua moglie, nonché, caratteristica davvero eccezionale dall’intero popolo dei Feaci, al punto che l’ospitalità al naufrago viene concessa senza alcun indugio, malgrado gli ospitanti avessero piena consapevolezza della palese avversità nutrita nei confronti di Ulisse da parte del dio Poseidone.
Nel Canto VI si vede Ulisse che incontra NAUSICAA che lo soccorre
Omero descrive l’incontro, su una spiaggia vicino alla foce del fiume, tra il naufrago Ulisse e Nausicaa, figlia di Alcinoo, re dei Feaci. Mentre la fanciulla si trovava al fiume per lavare le vesti nuziali con le sue compagne, così come l’aveva esortata a fare la dea Atena, Ulisse, ridestatosi, si mostra irsuto e cinto di fronde alle fanciulle. Tutte scappano, e solo Nausicaa, dopo aver ascoltato le dolci parole dell’eroe di Itaca, lo invita a ripulirsi e a seguirla alla reggia. Di seguito il passo che descrive l’incontro in cui Ulisse si rivolge a Nausicaa. Lei lo ascolta, e in seguito lo soccorre, nonostante l’aspetto lei comprende che è un uomo di valore e gli fornisce dei vestiti.
Queste sono le prime parole che Ulisse rivolge a Nausicaa.
“Io mi t’inchino, signora: sei dea o sei mortale? Se dea tu sei, di quelli che il cielo vasto possiedono, Artemide, certo, la figlia del massimo Zeus, per bellezza e grandezza e figura mi sembri, Ma se tu sei mortale, di quelli che vivono in terra, tre volte beati il padre e la madre sovrana, tre volte beati i fratelli: perché sempre il cuore s’intenerisce loro di gioia, in grazia di te, quando contemplano un tal boccio muovere a danza. Ma soprattutto beatissimo in cuore, senza confronto, chi soverchiando coi doni, ti porterà a casa sua. Mai cosa simile ho veduto con gli occhi, né uomo, né donna: e riverenza a guardarti mi vince.”
Così Ulisse vestito e ripulito si reca presso il palazzo dei sovrani, grazie al favore di Atena riesce a ottenere ospitalità. Ulisse in un primo momento non rivela che fosse, ma nonostante tutto chiede aiuto per tornare in patria e Alcinoo gli e lo concede.
Pertanto viene predisposto affinché lo straniero venga scortato con una nave dei Feaci nella sua terra. Prima della partenza viene imbandito un banchetto e per allietare i commensali viene chiamato un cantore, DEMODOCO.
Costui senza saperlo canterà le vicende che hanno coinvolto Ulisse. Questo personaggio è molto importante nell’opera perché rappresenta “le memorie e le parole che descrivono gli eventi”. Infatti nel poema si osserva come per i Greci queste figure fossero collegate direttamente con gli dei. Nell’opera si riconosce la sua nobiltà in quanto individuo direttamente collegato con le muse che lo ispirano e parlano attraverso lui e con Apollo[2] che dona e custodisce i suoi talenti di artista. Ma il momento più SOLENNE è quello in cui Ulisse ascoltando le parole di DEMODOCO, si ricorda di quello che ha dovuto patire e un fiume di lacrime gli riempiono gli occhi. Il suo pianto è struggente paragonato nei versi a quello di una donna di Troia sul corpo dilaniato del marito che è perito per salvare lei e i suoi figli ed è portata via destinata a diventare schiava… Questo è il pianto di chi ritorna nel ricordo di ciò che ha dovuto patire, in sé è un pianto di sventura ma anche di liberazione. È quel pianto di chi si può finalmente abbandonare al dolore quando ormai il pericolo è cessato. Quando ormai è possibile ritrovare pace, infatti Ulisse si lascia travolgere da questo sentimento proprio quando capisce che la sua Odissea è giunta alla fine è già tra gente amica e potrà tornare a casa. Il pianto di Ulisse in questo passo racchiude in un’unica immagine quel pianto di tutti gli individui che dopo aver affrontato destini avversi, dopo aver lottato per non soccombere riescono a venirne fuori… e in quel momento possono finalmente versare tutte le lacrime che hanno dovuto trattenere per concentrarsi per resistere, stringere i denti e ridestrarsi dalla situazione.
Nel Capitolo VIII: il cantore DEMODOCO e il pianto di Ulisse
In questo passo si recita come il sovrano dei FEACI dopo aver imbandito un banchetto chiede al cantore DEMODOCO di allietare i commensali con i suoi versi. Ulisse che ancora non ha rivelato la sua identità chiede a DEMODOCO se potrà recitare le gesta della guerra di Troia. Probabilmente spera che dal tipo di racconto potrà comprendere se i Feaci sono amici o nemici e decidere di conseguenza. Ascoltando le vicende della guerra di Troia Ulisse non riesce a trattenere le lacrime e si strugge, mostrando tutta la pena che ha nel cuore. Così il Sovrano dei Feaci fa interrompere il canto esortando Ulisse a condividere ciò che lo affligge.
Questo è il passo in versi prosati del capitolo VIII.
“Poi tutti tesero le mani sui cibi già pronti ed imbanditi;
quando tutti furono sazi di bere e di mangiare,
allora l’ingegnoso Odisseo disse a Demodoco:
“Demodoco, io ti considero superiore a tutti gli uomini:
la Musa figlia di Zeus ti ha istruito, oppure Apollo:
sai raccontare con esattezza la sorte degli Achei,
tutto quello che fecero e patirono, i dolori che soffrirono;
come se tu fossi stato presente, o lo avessi sentito da qualcuno.
Vai avanti e racconta della costruzione del cavallo
di legno, che Epeo costruì con l’aiuto di Atena
e che il glorioso Odisseo portò dentro l’acropoli:
era pieno degli uomini che poi distrussero Ilio.
Se racconterai anche questa cosa in modo giusto,
anche io parlerò e dirò a tutti gli uomini
che un nume benigno ispira il tuo canto divino”.
Così disse; e quello, ispirato dal Dio, riprese a cantare
di quando, saliti sopra le navi dai solidi banchi,
gli Argivi salparono, dando fuoco alle tende:
intanto gli altri, con il glorioso Odisseo,
stavano nella piazza dei Troiani, nascosti dentro il cavallo:
i Troiani stessi li avevano attirati fino alla rocca.
Così il cavallo era là e gli altri, seduti intorno,
facevano un gran parlare confuso; c’erano tre pareri discordi:
spaccare il legno concavo con bronzo spietato;
issarlo su una vetta e infrangerlo contro le rocce;
oppure conservarlo come un grande voto per placare gli Dei.
E proprio così doveva andare a finire, perché era destino
che la città perisse quando avesse accolto il grande
cavallo di legno, dove si trovavano tutti i migliori
degli Argivi, portando strage e rovina ai Troiani.
Poi cantava come abbatterono la rocca i figli dei Danai,
scesi dal cavallo, lasciando il concavo agguato;
cantava come devastarono la città per vari percorsi,
come Odisseo pari ad Ares giunse davanti alla casa
di Deifobo, assieme al divino Menelao;
e narrava che, ingaggiando un’aspra lotta,
aveva vinto ancora una volta, protetto dall’intrepida Atena.
Queste cose cantava l’aedo glorioso: Odisseo
si commuoveva e le lacrime bagnavano le guance sotto le ciglia.
Come una donna, gettandosi sul corpo, piange lo sposo
che cadde davanti alla città e ai suoi guerrieri
per difendere i figli e la rocca dal giorno fatale;
lei, che lo ha visto annaspare e morire,
gli si abbandona sopra e leva un acuto lamento ma i nemici,
colpendola dietro la schiena e sulle spalle con le lance,
la portano via come schiava, verso il pianto e la miseria
(le sue guance si scavano in pianto angoscioso):
così Odisseo sotto le ciglia versava le sue lacrime.
Tutti gli altri non si accorsero che lui versava lacrime,
ma Alcinoo se ne accorse e capì, perché sedeva
accanto a lui e aveva sentito il suo pianto profondo.
Subito disse ai Feaci, navigatori gloriosi:
“Ascoltatemi, condottieri e consiglieri dei Feaci,
Demodoco lasci ora la sua cetra armoniosa,
perché non è gradito a tutti questo suo canto.
Da quando siamo a cena e si è alzato il divino aedo,
l’ospite non ha mai smesso il suo triste pianto:
certo una gran pena gli opprime il cuore.
Dunque, si fermi l’aedo perché tutti possano essere lieti:
l’ospite e noi che lo ospitiamo. È questa la cosa migliore.”
Considerazioni conclusive
Questo pianto liberatorio è anche quello che molte persone vivono quando percorrono un percorso interiore, quando finalmente riescono ad uscire da situazioni difficili e finalmente le possono raccontare. Così il loro racconto è pieno di lacrime, lacrime di pena per sé stessi e di quello che hanno dovuto passare, lacrime che liberano, alle volte, da anni di accumulo di angosce. Lacrime di chi è riuscito a vincere contro le avversità della vita. Lacrime finalmente raccolte da qualcuno che li ascolta e patisce con loro.
Alle volte in terapia è possibile assistere a queste lacrime, e questi momenti sono i più solenni, sono le “LACRIME DEGLI EROI” le lacrime di chi può elaborare ciò che è stato e tornare a essere lieto. Tornare in patria per Ulisse è forse la metafora del tornare a casa, casa, nel senso di quel luogo dove c’è calore e si è circondati da ciò che è più caro, quel luogo dove, in fine, si ha il cuore in pace.
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Bibliografia
Omero, Iliade, versione di Rosa Calzecchi Onesti, con prefazione di Fausto Codino, Einaudi 1950).
Dott.ssa Giulia Iolanda De Carlo
Psicologa Psicoterapeuta Psicoanalitico
Corso Gramsci,133, Palagianello (Ta)
tel 3201987812
[1]Il popolo dei Feaci (in greco Faiakes – in latino Faeaces) è ricordato, principalmente, per due caratteristiche: per il loro profondo e naturale senso dell’ospitalità e per la loro grande abilità nella navigazione. L’individuazione, però, di questo popolo è stata sempre incerta, malgrado l’immortalità conferita loro dal grande aedo dell’Odissea, che lo rese protagonista delle premurose ospitalità ed assistenza offerte ad un naufrago sconosciuto, la cui narrazione, dopo tanti millenni, è pervenuta sino ai nostri giorni rendendoci partecipi della loro eccezionale magnanimità della quale poté usufruire Ulisse, che provenendo dall’isola di Calipso, Ogigia, approdò sulle loro coste
[2] Apollo è considerato il dio della bellezza e dell’ordine morale, dell’arte e degli oracoli.