C. G. Jung e le consapevolezze straordinarie a cui giungevano alcuni suoi pazienti lo stimolò a riflettere sui fenomeni legati all’esplorazione dell’esistenza. Spesso gli arrivavano persone in consultazione dopo essere riuscite a comprendere bene la loro situazione, ma questo era un po’ emblematico, in quanto si supponeva che un individuo che si rivolgeva a un professionista doveva trovarsi prevalentemente in una situazione di confusione e non di chiarezza della loro situazione. Sembrerebbe paradossale, afferma Jung, ma la sofferenza sopraggiungeva spesso dopo aver constatato una certa triste realtà. Durante i colloqui alle volte egli osservava pazienti che dichiaravano come il loro problema aveva a che vedere con l’incredulità di questa nuova visione, e riconoscevano che per tanto tempo erano rimasti vittima di illusioni. Al di là dei pazienti di Jung è sorprendente verificare, anche da parte di noi clinici, come alle volte il motivo della consultazione ha come obbiettivo quello di sostenere la persona nel mantenimento di una mente lucida scevra da vecchie illusioni, verso cui temono di poter ricadere. In questi individui è come se una forza in loro premesse per farli tornare indietro in una specie di intorpidimento della coscienza. Il terapeuta, in questi casi, sembrerebbe avere la funzione di custode di alcune consapevolezze raggiunte, e la terapia quel luogo dove “vedere più chiaro” al di fuori di quella emotività che spesso offusca la ragione. In queste circostanze è sorprendente osservare come la richiesta di consulenza potrebbe avvenire proprio in seguito a uno stato di SUPER-CONSAPEVOLEZZA … qualcosa di sé e della propria vita si riesce a vedere bene ma non si ha ancora il coraggio, (e spesso la forza) per affrontarla da soli. In diverse situazioni si tratta di un passaggio di crescita tormentato e doloroso, l’esito di una lunga riflessione dopo aver sperimentato sulla propria pelle quelle esperienze importanti, ma difficili, che fanno crescere a nostro malgrado. In quei casi la vita ci chiede di “riuscire a superare noi stessi” e fare un salto in alto, un salto, però, molto costoso. La metafora del “velo di Maya” mette in evidenza come la coscienza alle volte è ostacolata nella sua capacità di percepire bene il mondo. L’antica saggezza dei Veda indiani, datati intorno ai 5000 anni a.C., tramanda che la dea Maya, dopo aver creato la Terra, la ricoprì con un velo con la funzione di impedire agli uomini la conoscenza della vera natura della realtà. Maya è il velo dell’illusione, che ottenebra le pupille dei mortali. Viene tramandato dalla saggezza indiana che quello della dea fu un atto di pietà, perché altrimenti non sarebbe stata possibile la vita. Il velo non nasconde solo la realtà, ma ha l’obbiettivo di rendere più vivibile e adatto il mondo all’ essere umano. La parola māyā racchiude in sé diversi concetti metafisici e gnoseologici della religione e della cultura induista. Il termine è diventato famoso grazie all’espressione coniata da Arthur Schopenhauer (velo di Maya) nel suo libro “Il mondo come volontà e rappresentazione”.
Egli scrive: “E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge il volto dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente”. Anche Jung si trovò spesso in situazioni in cui ad un certo punto i suoi pazienti giungevano a consapevolezze straordinarie, come se in loro si fosse sbloccato qualcosa. Un velo, un meccanismo di difesa avesse lasciato lo spazio a una visione più lucida della loro situazione permettendogli di liberarsi da vecchi vincoli. Queste esperienze gli dimostrarono come in tutti gli esseri umani vi fossero presenti delle potenzialità inespresse. Giunse a convincersi che lasciare che queste potenzialità si manifestassero significava seguire la tortuosa strada che la vita sembrava loro indicare; per Jung la terapia aveva il compito di dare voce a queste possibilità. Infatti nel testo “Il segreto del fiore d’oro” affronta questo tema e dice:
“Di tanto in tanto capitavano, nella mia pratica terapeutica, eventi di questo tipo, e cioè che un paziente riuscisse a superare sé stesso grazie a potenzialità a lui sconosciute; ciò costituì per me l’esperienza più preziosa. Nel frattempo avevo infatti imparato che i problemi più grandi e importanti della vita sono, in fondo, tutti insolubili; e non possono non esserlo, perché esprimono la necessaria polarità inerente a ogni sistema di autoregolazione. Essi dunque non potranno mai essere risolti, ma soltanto superati. Perciò mi chiesi se questa possibilità del superamento, e cioè di un ulteriore sviluppo psichico, non costituisse in genere il fatto normale, e se quindi il fatto patologico non consistesse proprio nel rimanere bloccati dentro o davanti a un conflitto. Ogni individuo dovrebbe possedere, perlomeno potenzialmente, questo livello più alto, e poter dunque, in condizioni favorevoli, sviluppare tale possibilità. Nell’osservare il processo di sviluppo dei pazienti che tacitamente, quasi senza rendersene conto, erano riusciti a superare sé stessi, vedevo che i loro destini avevano tutti un elemento comune, in quanto il nuovo giungeva loro dalla sfera delle potenzialità nascoste, o dall’esterno o dall’interno. Essi lo accettavano e crescevano con il suo aiuto. Mi parve tipico che gli uni lo ricevessero dall’esterno, e gli altri dall’interno, o meglio che negli uni esso si sviluppasse dall’esterno e negli altri dall’interno, pur non essendo mai il nuovo cosa soltanto esterna o soltanto interna. Se proveniva da fuori, diventava una profonda esperienza interiore; se invece proveniva dall’interno si trasformava in evento esterno. In nessun caso però era stato procurato intenzionalmente e consciamente, ma sembrava piuttosto essere generato dal fluire del tempo. (…) Per quanto ho potuto vedere io, non hanno fatto proprio nulla (wu-wei = agire senza agire), ma hanno lasciato accadere, come insegna il maestro Lu-Tzu, poiché la luce circola secondo le sue leggi, se non si abbandonano le proprie abituali occupazioni. Il lasciar agire, il fare nel non fare, l’abbandonarsi del Maestro Eckhart è diventato per me la chiave che dischiude la porta verso la via: bisogna essere psichicamente in grado di lasciar accadere. Questa è per noi una vera arte, che quasi nessuno conosce. La coscienza interviene continuamente ad aiutare, correggere e negare, e in ogni caso non è capace di lasciare che il processo psichico si svolga indisturbato…”
Bibliografia
Benedetti G. (1969) Neuropsicologia.
Eibesfeldt I. E., (1971) Amore e Odio. Adelphi, Milano , pag. 25.
Jung C. G., Wilhem R. (1929) Il segreto del Fiore d’Oro
Jung C. G. (1921) Tipi psicologici, Boringhieri, pag. 489.
Jung C. G. (1944) Psicologia e Alchimia. Boringhieri
Jung C. G.(1956) Mysterium coniunctionis.
Jung C. G.(1961) Ricordi, sogni e riflessioni.
Grazie dell’attenzione
Dott.sa Giulia Iolanda De Carlo
Psicologa Psicoterapeuta Psicoanalitico
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